Giuseppe B. passò gli ultimi anni della sua adolescenza a sognare il giorno in cui si sarebbe potuto permettere l’acquisto di un vestito nuovo. Aveva sperato che il grande evento arrivasse il giorno della sua prima comunione, ma non era stato possibile. Nel comunicargli che la famiglia non aveva le possibilità di un acquisto così impegnativo, sua madre era più triste di lui. Quanto a suo padre, si era limitato a delegare alla moglie il compito di dare la brutta notizia e poi, per tutto il giorno, in chiesa e dopo, e anche successivamente, nei giorni seguenti, aveva evitato il suo sguardo, certamente ancora più amareggiato di lui, che lo era molto.
Ma gli anni si susseguirono senza che l’acquisto venisse fatto e il vestito nuovo rimase un sogno irrealizzato fino al giorno in cui Giuseppe si sposò. Quel giorno il vestito nuovo lo indossò e in Chiesa, davanti all’altare, a fianco della sposa in abito bianco, si sentiva un damerino. Era un vestito confezionato dal miglior sarto della città, che aveva fatto un vero capolavoro. Gli stava a pennello, era lucido, lussuoso, un capo d’opera. C’era da menarne vanto davvero. E Giuseppe, che lo indossò in seguito soltanto nelle grandi occasioni, se ne vantava e ogni volta, indossandolo, ne era fiero. Pochi in paese avevano un bel vestito così.
I primi segni che l’abito andava invecchiando si ebbero una ventina d’anni dopo. Uscì qualche piega che prima non c’era, qualche parte delle maniche sembrava sgualcita, il colore non era più quello. Ma ad indossarlo faceva sempre la sua bellissima figura. La naftalina gli dava un cattivo odore, che si spandeva nella camera e quasi in tutta la casa quando si apriva l’armadio, ma le tarme dovevano con tutta evidenza averne un sacro terrore, se dopo tanti anni non erano riusciti a fare nemmeno un buco.
Però, ahimè, le cose della vita sono sempre complicate e con gli anni la naftalina fu un po’ trascurata, il vestito venne indossato di meno, anche perché cominciava a stare stretto e c’era il pericolo che si sgualcisse a volerlo indossare per forza. Accadde così che un giorno Giuseppe, aprendo l’armadio (erano ormai passati tanti anni dal giorno in cui lo aveva indossato la prima volta), si trovò davanti ad una sgradita sorpresa. O la naftalina era stata poca, o le tarme si erano abituate, fatto sta che l’abito presentava dei buchi, e un po’ dovunque, anche nelle parti che sarebbe stato impossibile nascondere. La decisione fu presa. Giuseppe andò da un sarto (un altro, perché il maestro che lo aveva confezionato era morto) e lo fece mettere a posto. Si fece quel che si poté. Qualche buco fu tappato, qualche altro fu aggiustato, nelle parti non esposte si mise qualche pezza.
Giuseppe, quando indossò nuovamente il vestito, tornò ad essere fiero. Era sempre un capolavoro, anche se bisognava fare molta attenzione perché non si rovinasse. Passarono ancora gli anni. Il vestito, tornato nell’armadio, ci restò forse troppo, e troppo trascurato. Così, quando Giuseppe pensò di indossarlo nuovamente per le nozze d’oro (o erano addirittura di diamante?), non riuscì ad indossarlo: a mano a mano che provava la stoffa, troppo consunta, si squarciava e si sbrindellava, cadeva a pezzi, fino a quando tra le mani non si trovò che un panno che di un vestito non aveva più nemmeno la forma, non parliamo della funzione.
Ecco, amici miei. Ho ripensato alla storia di Giuseppe e del suo vestito in questi giorni, a proposito della penosa situazione di quel che fu un vanto della nostra provincia e oggi è soltanto una rete idrica tutta bucherellata che cade a pezzi e cede sotto il peso di frane fin troppo previste: l’Acquedotto del Ruzzo.
L’idea di realizzare un acquedotto consortile utilizzando le sorgenti del Ruzzo per supplire alla carenza idrica nel teramano, dell’ing. Alfonso De Albentiis e del sig. Bona, nacque nel 1904, ma solo nel 1912 fu accolta favorevolmente da alcuni comuni e l’8 giugno venne costituito un Consorzio. La costruzione effettiva dell’acquedotto restò un sogno, per anni e anni, e si dovette aspettare il settembre del 1929 per l’approvazione e il finanziamento di un primo stralcio del progetto. Due anni dopo, nel 1931, fu stipulato un mutuo e i lavori vennero appaltati. Vennero iniziati nel 1934 e, costruito a tempo di record dall’impresa Del Fante, sotto la direzione dello stesso ing. Alfonso De Albentiis, l’Acquedotto venne inaugurato solennemente nel 1936, alla presenza delle autorità.
Era un capolavoro. C’era da menarne vanto. Un’opera meravigliosa. Da esposizione. Di un’efficienza straordinaria e di una bellezza progettuale senza pari. Nel 1950 un nuovo serbatoio sostituì quello in uso, ormai insufficiente e con qualche problema, e fu inaugurato dall’allora Ministro dei Lavori Pubblici on. Umberto Tupini. L’acquedotto tornò ad essere un capolavoro e consentì di alimentare idricamente fontane pubbliche e lavatoi, di avere l’acqua corrente dentro le case. Un lusso.
Nel corso degli anni la rete di tubature venne a lungo trascurata, pochi furono gli investimenti e il denaro scorse, a fiumi, per altri rivoli, diversi da quelli che avrebbero portato ad una saggia ed utile manutenzione. Le risorse furono destinate alla politica e i soldi presi dalle bollette dei teramani servirono per assunzioni clientelari e per i parassiti, che non mancano mai e anzi sono sempre tanti. Scomparvero i fontanieri, i tecnici, i progettisti e si moltiplicarono i dirigenti, gli impiegati, gli inservienti senza funzioni. Nei tubi cominciò a scorrere non più l’acqua, ma il fango, dalle rotture l’acqua fuorusciva in quantità bagnando la terra circostante, che poi franava e franando faceva rompere altri tubi.
In questi ultimi giorni, come fece Giuseppe con il suo vestito una volta nuovo ma diventato con gli anni troppo consunto per poter essere indossato ancora, i teramani si sono ritrovati per giorni e giorni senza acqua: l’acquedotto non è più tale, ma un enorme, lungo, serpeggiante colabrodo.
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