Vengo da una famiglia contadina, sia i nonni materni che paterni coltivavano la terra, e sono cresciuto in campagna. Ho sempre pensato che l’Italia fosse un posto privilegiato soprattutto per il nostro paesaggio e per coloro che lo fanno fiorire producendone frutto.
Negli ultimi 20 giorni ho letto due interviste che mi hanno molto toccato: una allo scrittore Mauro Corona (http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/15/mauro-corona-salvezza-e-nella-terra-riprendiamo-zappa/562991/), l’altra (su Il Messaggero Abruzzo del 4 maggio) a colui che considero un maestro, vertice assoluto dell’intelligenza abruzzese e orgoglio internazionale della nostra regione: Francesco Paolo Valentini (dell’omonima casa vitivinicola di Loreto Aprutino).
Dentro le parole di questi due signori totalmente diversi fra loro c’è una acuta analisi della nostra realtà ed un programma politico ben preciso, fondato sulla ricostruzione dell’etica, il cui prolasso è alla base della crisi epocale che stiamo attraversando.
Io non so chi sarà al governo dell’Abruzzo fra sei mesi (anche se lo immagino), ma so esattamente che le parole di Valentini dovranno fungere da guida per il nuovo esecutivo, se vogliamo rialzarci da una condizione umiliante.
Meglio sarebbe se Valentini potesse essere chiamato nel ruolo di Assessore di punta di una Giunta rivoluzionaria.
Ecco una sintesi dei due interventi.
1) Mauro Corona. «Noi in città ci disperiamo per la recessione economica, lassù lei sta peggio.
“Peggio un cavolo! (…) le rispondo: una favola. Coltivo verze, cavolfiori, patate (le patate sono decisive per vivere). E susine, ciliegie, mele, pere. Toccherà anche a lei imparare a zappare. Il nostro futuro è nella terra: a ogni cosa si può rinunciare tranne che a soddisfare la fame. Quindi, niente paura: una zappa ci salverà”.
Conosceremo i calli alle mani, torneremo alle candele.
“Ma benvenuti ai calli, diamine. L’idiozia è restare vittime della dittatura del superfluo, l’idiozia è non capire che per vedere devi togliere roba davanti ai tuoi occhi, cosa te ne fai della Ferrari nel capannone, idiota? Il denaro compra il tempo, ma il tempo è ripetitivo, ci annoia perché non siamo stati abituati a governarlo, dominarlo. Dove sono le passioni, e dove la speranza? Da quel che vedo siamo vicini alla fine”.
Il capitalismo sta schiattando?
“Ma certo, che dubbio c’è. Ci ridurrà allo stremo. Nel vicino Friuli c’è un paese dove si facevano sedie. E queste benedette sedie con gli anni sono venute a costare uno sproposito: le vendevano 400 euro l’una. Sono giunti i cinesi con le loro sedie a 20 euro e tutto è finito. Il paese delle sedie che non ne vende più una. Questo è il capitalismo. Si può essere cretini così? Due giorni fa ero a Montecarlo per una conferenza”.
Lei a Montecarlo?
“Certo, devi andare dai cretini per parlare dei cretini. Devi giungere nel punto esatto dove si concentrano i soldi per illustrare la loro inutilità”.
Marcuse parlava dell’offerta senza desiderio.
“Esatto. Vince l’apparenza sopra la realtà. Il verosimile sul certo. Vince la televisione, il talk show, il frou frou, il cinguettio scadente frutto del pensiero inutile. Se non vai in televisione per dire che ti uccidi neanche tua moglie ci crederà mai”.
“Noi italiani abbiamo consumato ogni etica, e questa caduta civile, questa deriva economica un po’ ce la siamo conquistata con il nostro stile barbarico. Gli schei ci hanno fatto ammalare e ridotto in povertà. Vanitosi e pigri, ora disperati”.
Una parola di conforto?
“Una zappa per tutti. Impareremo presto a essere imprenditori della terra. Cioè di noi stessi, e capiremo che è una cosa bellissima”».
2) Francesco Paolo Valentini. «“Settore primario, lo chiamavano (l’agricoltura, ndr). In realtà siamo sempre stati ultimi nella considerazione della politica e dell’economia. In particolar modo da queste parti, dove il commercio ha trainato l’economia terziaria e l’industria è stato il grande sogno degli anni dello sviluppo. Non ho mai capito questa infatuazione in un paese povero di materie prime e dunque strutturalmente svantaggiato nella manifattura. Ora tutti guardano ai campi come ad una nuova opportunità, ignorando che è sempre stata questa la strada giusta. Ad andare in crisi è stato un sistema finto, drogato dalla finanza. L’agricoltura è il contrario di questa economia senza basi, come bene esprime la materialità della terra: in questa riscoperta leggo in parte il tentativo di rimuovere il fallimento di un modello e in parte l’errore di continuare a considerare i campi come un rifugio e non come la prima grande risorsa del made in Italy”.
Potranno mai arrivare da qui opportunità di lavoro e di ricchezza paragonabili alla grande stagione dell’industrializzazione d’Abruzzo?
“Con politiche adeguate, sì. Di base, l’agricoltura non ha grandi margini di redditività, uno-due per cento quando va bene. La vera chance è l’attività di trasformazione, il valore aggiunto che può arrivare dall’eccellenza. Dalla produzione di olio e vino, dalla valorizzazione dei prodotti. Ma soprattutto, l’agricoltura è il perno per costruire un sistema intorno a turismo, beni ambientali, belle arti”.
Quali, allora, le cose da fare per colmare il ritardo?
“Al primo posto metto la tutela dei nostri prodotti: l’Italia produce 470 mila tonnellate di olio extravergine di oliva, con una ricchezza di cultivar da fare impressione, ben venti soltanto nel nostro Abruzzo. In Italia, però, si importano ogni anno 580 mila tonnellate di olii spagnoli e mediterranei, che finiscono per mettere fuori mercato la nostra produzione. Vale per il vino, per la pasta, per molte materie prime: che senso ha riconoscere il made in Italy al luogo di ultima lavorazione del prodotto? Quello che conta è la materia prima e su questo non c’è una sola norma. Secondo la Food and drugs administration statunitense, su 5 olii venduti come italiani soltanto uno è realmente made in Italy. Così si perde ricchezza e occupazione”.
L’altro lato della medaglia è rappresentato spesso dall’inferno del lavoro nei campi, senza diritti e senza umanità: senza arrivare in Puglia e Calabria, basta citare la Marsica.
“Il primo argine è l’etica: piuttosto che avere un lavoratore in nero preferirei chiudere l’azienda e non credo di essere un’eccezione. C’è poi da considerare la quota di disonesti presenti in ogni attività umana, ma quello che non viene mai considerato è la condizione prodotta dalla concorrenza sleale e dall’assenza di regole: se una passata di pomodoro deve competere con del concentrato cinese rivenuto con acqua e sale e messo in bottiglia in Italia, è fatale che a farne le spese sia il costo del lavoro. Vale per i succhi di frutta e per una quantità di altri prodotti. Se non si difende seriamente il made in Italy in agricoltura, le conseguenze sono anche queste”.
Vino e petrolio: è una convivenza possibile?
“Per me no. Perché i rischi per paesaggio e ambiente sono enormi, perché il turismo pagherebbe un prezzo salato e perché l’Abruzzo non sarà mai il Texas e finirebbe fatalmente per essere una base logistica e di trasformazione. Sarebbe come piegarsi nuovamente al ricatto industriale, quando ormai sappiamo che la manifattura inseguirà fatalmente il minor costo del lavoro”».
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