Sono ateo, per cui posso parlare con il massimo disinteresse di chi auspicherei veder ascendere al soglio pontificio. I credenti mi perdonino e non leggano oltre.
La cultura è il valore più importante.
I cantanti migliori dell’Italia contemporanea, secondo me, sono quelli con la struttura culturale più solida: Battiato, Gaber, De Andrè; Dalla, ecc.
Lo stesso vale per gli altri artisti, per i politici, gli economisti, i professionisti di qualsiasi genere.
È la cultura che fa la differenza.
Se Benigni pronuncia per ore parolacce, la sua performance è un esercizio di alta comicità; se le stesse parolacce le pronuncia il salumaio ai propri clienti è semplicemente un maleducato e un cafone.
Se Eugenio Scalfari fa la pipì per strada è uno straordinario gesto di disobbedienza civile; se a fare pipì per strada è un edicolante trattasi di becera malacreanza.
La primazia della cultura è il faro cui orientarsi.
Il ragionamento dovrebbe arrestarsi qui perché qualsiasi cattolico, qualsiasi cristiano, qualsiasi seguace di una religione direbbe che il Papa deve essere il campione della fede, ed è nella primazia della fede che i cardinali – ispirati nel conclave dallo Spirito Santo – debbono fare la loro scelta sul nome del prossimo Papa.
Ma io non ci credo, o almeno non ci credo più.
Tutti conoscono la travagliata storia della Chiesa e le vicende a dir poco grottesche, lascive, turpi, assassine che hanno contraddistinto le biografie di molti Papi. Ma lasciamo stare la storia.
Ciò a cui non credo più è alla discriminante della fede.
È stato proprio Benedetto XVI a farla cadere. Se in 700 anni non si è mai verificato che un Papa rinunciasse al proprio ministero, sebbene impedimenti personali, di salute e politici ve ne siano stati molti, è perché la regola sempre rispettata è stata quella di continuare a dispetto di tutto a rappresentare la forza della Fede.
Ratzinger ha spezzato questa regola. Ha detto che problemi di salute impediscono la funzionalità del proprio ministero, a prescindere dalla sacralità del proprio ruolo.
Ha secolarizzato il soglio petrino.
Ne sono lieto.
Ed allora, sempre da ateo, mi permetto di fare un auspicio: quello che fra i 119 Cardinali venga eletto quello che maggiormente possa suscitare ammirazione nei popoli e rappresentare il massimo della elevazione dello spirito. Il più colto.
La fede va bene. I papi possono averla, ma anche perderla o non averla mai avuta, cose peraltro successe nella bimillenaria storia del cristianesimo.
Ma un Papa che rappresenti una guida anche per chi non crede o non crede più, con la forza cristallina e il magistero che solo la cultura può rappresentare per l’intero mondo, credo sia la cosa più bella che possa succedere nella Chiesa.
Per tali motivi mi permetto, in maniera del tutto abusiva, di fare il tifo per il cardinale Gianfranco Ravasi, già Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, dal 2007 Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, dicastero istituito nel 1982 da Papa Giovanni Paolo II con lo scopo di “favorire le relazioni tra la Santa Sede ed il mondo della cultura, promuovendo in particolare il dialogo con le varie culture del nostro tempo, affinché la civiltà dell’uomo si apra sempre di più al Vangelo, e i cultori delle scienze, delle lettere e delle arti si sentano riconosciuti dalla Chiesa come persone a servizio del vero, del buono e del bello”.
Naturalmente la mia preferenza non è legata ai titoli di servizio del cardinale, ma alla stima incommensurabile che porto per l’uomo Ravasi, stima sviluppata ed alimentata per anni abbeverandomi alle quotidiane riflessioni che egli mi ha regalato con la sua rubrica “Il Mattutino”, tenuta sul quotidiano “Avvenire”.
Penso che dentro le considerazioni coltissime di Ravasi non ci fosse Dio, ma semplicemente il distillato del meglio che il genere umano abbia prodotto.
Grazie Gianfranco.
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