Chi mi conosce sa da quanto tempo io studi il Vajont, quanto ne sia innamorato, quanto abbia visitato quei luoghi a me così cari, quante volte sia entrato in quei cunicoli e in quell’impianto che, allora come oggi, riesce ad accostare l’orgoglio dell’ingegneria civile italiana alle lacrime per l’immensa tragedia che pure determinò.
L’allarme appena diramato, assai inopportunamente, dalla Commissione Grandi Rischi in relazione all’invaso di Campotosto in occasione di un possibile evento sismico generato dalla faglia posta al di sotto del bacino, paventando addirittura un ipotetico «effetto Vajont», non è solo fuori luogo. Ma assolutamente sbagliato. E lo è perché Campotosto e il Vajont sono profondamente differenti.
Lo sono da un punto di vista geomorfologico. Lo sono da un punto di vista impiantistico. Lo sono da un punto di vista storico. Nel secondo caso, quello del 1963, la straordinarietà di quella Diga, capolavoro della nostra ingegneria, non si sposò con l’inopportunità del luogo nel quale venne realizzata. Non fu la Diga a crollare, fu il Monte Toc a finire dentro al lago, generando un’onda mostruosa che scavalcò la Diga, strutturalmente più che perfetta, e andò ad abbattersi sugli abitati di Erto e Casso (a monte) e sulla povera Longarone (a valle), che pagò il prezzo più alto. Nulla di tutto questo è paragonabile con il caso di Campotosto.
Un unico paragone possibile, ironia della sorte, può essere fatto solo dal punto di vista storico. E per capirlo basta leggere il comunicato ufficiale dell’ENEL, nel quale sostanzialmente si dichiara che, alla luce dell’allarme diramato dalla Commissione Grandi Rischi, si procederà cautelativamente ad un progressivo abbassamento del livello del lago di Campotosto: in un primo momento aumentando al massimo la portata verso le opere di presa (che sono collegate con le condotte adduttrici) verso le centrali idroelettriche poste a valle del bacino e, in un secondo momento, aprendo i vari scarichi della Diga del Rio Fucino.

Un successivo intervento del Dott. Leo Adamoli, geologo assai noto e coordinatore nazionale della sezione di geologia ambientale della Società Geologica Italiana, ha tutta via richiamato l’attenzione sull’opportunità di effettuare una «attenta valutazione delle eventuali variazioni che lo svuotamento più o meno rapido del bacino artificiale potrebbe apportare allo stato tensionale della faglia».
Il dilemma che quindi ne vien fuori è appunto questo: svuotare o non svuotare? Abbassare il livello dell’invaso o non farlo? E, guada caso, è un po’ il dilemma che gravò sull’Ing. Alberico Biadene, che dopo la morte del Prof. Carlo Semenza, divenne il responsabile della Diga del Vajont (nel momento immediatamente precedente il passaggio dell’impianto dalla SADE all’ENEL), in quella lunga e difficile notte del 9 ottobre 1963.
Il bacino del Vajont si trovava, fino a quel momento, alla straordinaria quota di 710 metri sul livello del mare. Alla luce dei rischi, ormai concreti, di frana del Monte Toc, l’Ing. Biadene decise di abbassare il livello del lago alla quota ritenuta di sicurezza, ossia 690 metri. Per togliere quanta più acqua possibile, diede quindi ordine di svasare, aumentando l’adduzione alla sottostante Centrale del Colomber e aprendo i primi scarichi della Diga (quello di alleggerimento e quello di mezzo fondo). Man mano che il livello dell’acqua si abbassava, tuttavia, il rischio paradossalmente aumentava: ripresero i movimenti franosi del Toc e la marcia della montagna divenne ormai inarrestabile.
Eventi che fanno parte della storia, questi del Vajont, ma che per un singolare gioco del destino sembrano somigliare al caso di Campotosto, in relazione alla difficile decisione, a carico dell’ENEL, di svasare. Meglio o peggio… non so. Ma sicuramente non facile scegliere. Così come non fu facile, in quella notte dell’ottobre 1963, per l’Ing. Biadene.
Questo è l’unico paragone possibile fra Campotosto e il Vajont. Sugli eventi e sulle decisioni… ma non certo sui rischi e sulle strutture. Niente allarmismi, dunque. Solo qualche somiglianza storica e assolutamente nulla di più.
Fabrizio Primoli
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