Con l’affacciarsi sulla scena mondiale dei Social Forum di Seattle e Porto Alegre, diversi autori si sono chiesti se una critica alla globalizzazione fosse già stata impostata in tempi non sospetti. Julius Evola, lo studioso di tradizioni esoteriche, il maestro dell’ ascesi guerriera di Dottrina aria di lotta e vittoria (1941) come catarsi scatenata dalle forze primordiali (testo che farebbe sembrare i discorsi di Bin Laden, sermoni liberaldemocratici…), il barone invalido di guerra che riceveva di spalle i suoi allievi, l’eversivo “Marcuse di Destra” già nel 1935 scrisse nel suo Rivolta contro il mondo moderno che: “…vediamo che le forze volte a travolgere le ultime dighe si centralizzano in due fuochi precisi…ad oriente è la Russia, ad occidente l’America… (nel capital-comunismo n.d.r.)… il mito economico marxista non è l’elemento primario. L’elemento primario è la negazione di ogni valore d’ordine spirituale e trascendente, la disintegrazione del singolo nel collettivo. La meccanizzazione diviene centro di una nuova promessa messianica, la realizzazione dell’uomo-massa”. Intellettuale marginalizzato nel periodo fascista in cui l’attualismo di Giovanni Gentile era in auge, seppe però essere un punto di riferimento per il neo-fascismo e per tutti coloro che nel dopoguerra si sentivano (parafrasando Marco Tarchi) “esuli in patria”.
L’esperienza non consumistica della giovinezza accomuna il giovane no-global all’evolismo ma ne traccia pure la distanza se ragioniamo su come Evola definì la società americana: “Nella grandezza smarrente delle metropoli americane ove il singolo – ‘nomade dell’asfalto’ – realizza la sua infinita nullità dinanzi alla quantità immensa, ai gruppi, ai trusts e agli standards onnipotenti, alle selve tentacolari di grattacieli e di fabbriche… In tutto ciò, il collettivo si manifesta ancor di più senza volto che non nella tirannide asiatica del regime sovietico”. Insomma l’esito terminale del capitalismo finanziario è una sorta di bolscevismo assoluto. Sulla cosiddetta “contestazione totale”, Julius Evola scrisse proprio su Gli uomini e le rovine: “…l’oggetto di una protesta e di una rivolta legittima, dovrebbe essere una civiltà pervasa da ciò che abbiamo chiamato demonìa dell’economìa, ossia dove i processi economico-produttivi stanno soffocando ogni vero valore… è utopico pensare di poterle staccare ( le masse n.d.r.), dagli ideali di una comodità generalizzata e di un edonismo borghese, se non si trova il modo di suscitare una tensione spirituale…. Ora è evidente che nulla può essere fatto in tal senso, in un clima di democrazia…”. Proletarismo e borghesismo non sarebbero che varianti di una medesima decadenza, esiti del Kali-Yuga, Età Oscura, che albergavano già nell’inconscio collettivo delle razze non indoeuropee come germi contagiosi. In questo, Julius Evola si avvicina a quella ideologìa tripartita degli indoeuropei che George Dumezìl aveva evidenziato con la struttura gerarchica tra mercanti, guerrieri e sacerdoti, ribaltata dal mondo moderno. Se consideriamo gli esiti catastrofici del capitalismo speculativo della virtualità finanziaria, Evola ci appare non tanto un pensatore antimoderno del secolo scorso ma un osservatore ultramoderno che denuncia l’assenza del Politico nella polis, quasi una contraddizione in termini.
In Metafisica del Sesso, Evola denuncia la deriva nevrotica della società occidentale riguardo l'ossessione nei confronti dell'erotismo: "E' caratteristico il fatto che al sesso si pensi assai più oggi che non ieri, quando la vita sessuale era meno libera...di questa moderna pandemìa del sesso va messo in risalto il carattere di cerebralità. Si tratta di quelle ragazze moderne nelle quali l'esibire la propria nudità, l'accentuare tutto ciò che può presentarle come esca all'uomo, il culto del proprio corpo, la cosmetica e tutto il resto costituiscono l'interesse principale e danno loro un piacere trasposto preferito a quello specifico dell'esperienza sessuale normale e concreta....questi tipi sono da annoverarsi fra i focolari che più alimentano l'atmosfera di lussuria cerebralizzata cronica e diffusa nel nostro tempo". Pur non muovendo dall'ottica morale del cattolicesimo, Evola intuisce come anche riguardo al sesso, vi sia un'involuzione materialistica che altera il ruolo del sesso all'interno della società.
In Orientamenti Evola chiaramente si scaglia contro il primato dell’economico che vuole il progresso del singolo e la sua elevazione, strettamente ancorate all’agiatezza sociale e al soddisfacimento ossessivo dei bisogni fisici….”Gli uomini del nuovo schieramento saranno sì antiborghesi, ma per via della suddetta concezione aristocratica ed eroica dell’esistenza, perché disdegnano la vita comoda, perché non seguiranno chi promette vantaggi materiali ma coloro che esigono tutto da se stessi... perché non hanno la preoccupazione della sicurezza”. Appare evidente l’abissale differenza tra l’antiboghesismo marxista e quello evoliano. La reazione evoliana è rivoluzionaria proprio perché cerca di attingere alla Tradizione e al ritorno di quella gerarchia sociale scompaginata dalla Sovversione. Infatti la rivoluzione non dovrebbe essere altro che un “re-volvere”, un ritornare a valori originari e pertanto una “Rivoluzione Conservatrice” non avrà lo scopo di conservare ciò che è frutto attuale della Sovversione (che guarda al “sol dell’avvenire”), ma di restaurare un Ordine in cui il sociale e l’economico, siano subordinati al Politico e allo Spirituale. La critica evoliana al fascismo, “visto dalla destra”, sarà incentrata proprio sugli aspetti populistici e “sociali” del fascismo stesso, derive che avrebbero infettato il regime mussoliniano. Mentre il III Reich hitleriano veniva criticato da Evola per il determinismo positivistico, substrato culturale del razzismo biologico, quando il vero problema sarebbe stato a quale “razza dello spirito” appartenere. L’antigiudaismo evoliano, nell’opuscolo Tre aspetti del problema ebraico, sarà incentrato specialmente nella critica alla “divinificazione del denaro” come esito materialistico del razionalismo calcolatore, al “nomadismo” frutto dell’astrattismo culturale (oltre alla “infezione psicanalitica”), al “profetismo” come elemento dirompente nei confronti dei veggenti della paganitas. Tali caratteri sono visti come elementi dissolutivi di una Civiltà Eroica, Solare, orientata da un’Etica diurna, uranica e guerriera. Appare evidente come Evola sia molto oltre il variopinto mondo contestatario, in quanto la sua visione del mondo è radicalmente avversa al nucleo centrale del mondo moderno, che già si sarebbe dotato di opposizioni funzionali alla tenuta complessiva di se stesso e del suo fondamento.
Considerando il dibattito sulle “guerre imperialiste” e sulla critica culturale all’imperialismo dell’ambiente no-global, Evola si pone in netto contrasto con una visione pacifista dei rapporti internazionali. Infatti ne Lo Stato è proprio la distanza tra Impero e imperialismo che Evola traccia, nel suo L’Inghilterra e la degradazione dell’Idea di Impero: “…un mondo controllato dalla plutocrazia borghese è un’ingiustizia….ma dire ingiustizia è poco e indeterminato:
è di una degradazione e di una usurpazione che dovrebbe parlarsi…Che la potenza sia definita dalla ricchezza e dall’oro e che le nazioni potenti in questo senso senza avere nessun altro titolo di superiorità, controllino il mondo, ciò è assai non meno una ’ingiustizia’ che qualcosa di assurdo, di capovolto. Oggi si tratta di contestare il diritto di una élite usurpatrice e di sostituirla con un’altra élite…senza presupposto “sacro” non si legittimano un diritto supernazionale a base gerarchica”. E’ consequenziale per Julius Evola quindi, considerare il pacifismo come frutto del grigiore borghese, quando la pace “ariana” è vittoria sul caos, frutto dell’eroismo in battaglia evocante il contatto tra “mondo” e “sopramondo”. La vita culturale di Julius Evola è oscillata tra Nietzsche e Guenon. Il primo Evola di Fenomenologìa dell’individuo assoluto, il dadaista che sembrava ripercorrere la via del nichilismo attivo (tratto essenziale della modernità antitradizionale da Lutero in poi), per poi tendere verso l’unità trascendente delle religioni con gli scritti esoterici come Lo Yoga della potenza, ritorna nell’opera Cavalcare la tigre (libro di Evola che per molti evoliani andrebbe letto “per ultimo”) a chiedere un’accelerazione dell’involuzione sociale come evento catartico. Affrettare il Kali-Yuga e porsi nella condizione di essere presenti osservatori, pronti ad assestare il colpo di grazia alla tigre.
Evola si distingue da Guénon sviluppando i fondamenti di un'azione politica propria della casta guerriera kshatriya, diversa dal modello sacerdotale e contemplativo del brahmâna Guénon. La Tradizione difesa da Evola, strettamente legato all'occultismo, è fondamentalmente anticristiana: rimproverava al cristianesimo di avere adottato una morale restrittiva, dimenticando che «il "male" è solamente un termine generico dal contenuto variabile a causa dei condizionamenti sociologici e storici». Nel 1971, Evola accusò ancora la Chiesa di avere elaborato una teologia riduttiva non tenendo in considerazione del «Principio Supremo» che il suo elemento creatore, senza tenere conto del suo altro polo, quello distruttore che tuttavia rientra nella dialettica del divino. Lo kshatriya non doveva rigettare a priori nessun mezzo per entrare in contatto col «mondo soprasensible». Al di là del bene e del male, malgrado tutti i pericoli che queste pratiche possono comportare, il guerriero gnostico deve essere in grado di sperimentare l'Alchimia, la Magia Nera o la Stregoneria.
Lo kshatriya lascerà il posto, come già detto, ad una sorta di "anarca" pronto ad assestare il colpo di grazia alla "tigre". Un tale "distacco" dalle cose del mondo, viene definito dal nostro autore apolitìa. Apolitìa per Evola non è rinuncia alla partecipazione politica, ma il non sentirsi legati al proprio tempo ed al proprio contesto politico-culturale da legami spirituali o psicologici, tratto essenziale se si vuol davvero cavalcare il mondo moderno senza farsi contaminare dai suoi miasmi. Lo stesso Evola pur avendo combattuto nella Grande Guerra contro gli Imperi Centrali, non esitò in seguito ad affermare come tale guerra fu scagliata contro quella Tradizione che lui stava iniziando ad amare. Una Tradizione però, quella evoliana, intesa come archetipo ideale e del tutto acefala, sostanzialmente atea perché non solo senza Dio, ma senza trasmissione. Una Tradizione che rimanda ad epoche remote di cui si sono perse le tracce, riservata ad élites ma inaccessibile ai popoli è poco Tradizione. In buona sostanza ed a ben vedere, in Evola non vi è presenza né di Dio, né della Patria (se non come pura Idea e quindi in ossequio ad una visione giacobina e moderna), né di Famiglia (vista come residuo sentimentalistico-borghese).
Il nostro autore ha amato la cavalleria medievale, vedendovi un origine iniziatica che rimandava alla Tradizione Primordiale pagana e con questo ignorando il merito della Chiesa di aver temperato dopo la caduta dell'Impero Romano i costumi feroci dei barbari, istillando loro sentimenti di devozione e di onore e limitando i giorni di battaglia con la 'pace di Dio'. Evola contrapponeva così l'eroe al santo (se manca la fede non si vede che il santo è già un eroe), il vincitore al martire (anche il martire è un vincitore a meno che manchi la fede), l'onore all'umiltà, così aderendo alle letture leggendarie sul Graal trasferito nell'Isola Bianca degli Iperborei. La Tradizione evoliana è evanescente e inaccessibile se non a livello iniziatico, ma non come Tradizione vivente di padre in figlio e come orizzonte in senso comunitario. L’Uomo Evoliano si trova fieremante “in piedi tra le rovine”, ma in una sorta di limbo, di interregno tra due Mondi opposti ed incomunicanti: il Mondo Moderno e il Mondo Tradizionale, divenuti radicalmente ed irriducibilmente due archetipi astratti.
Nel 1974, secondo le sue ultime volontà, le ceneri di Evola furono portate dai suoi amici sulla vetta del Monte Rosa e disperse in un ghiacciaio, in omaggio a quella visione gnostica che vede nel corpo una prigione creata dal Demiurgo cattivo che avrebbe così rinchiuso la scintilla divina che è in ciascuno di noi.
Una lettura disincantata di Evola non solo può arricchire le volontà di coloro che non si sono rassegnati a vivere nel mondo plastificato e piegato alla demonìa dell’economìa, ma nel rendere giustizia delle molte verità da lui asserite, stempera nel contempo quella fascinazione magica che i suoi scritti possono indurre, evidenziando anche errori e limiti.
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