Luigi Bisignani. Basta la parola. Non occorrono presentazioni né curriculum. Di lui Berlusconi ha detto che “è l’uomo più potente d’Italia” e Gianni Letta ha dichiarato che “è l’uomo più conosciuto che io conosca”.
Dopo trenta anni di esercizio occulto del potere, Bisignani finalmente si racconta con la fascinazione che può suscitare chi sa tutto o quasi dei meccanismi che governano le Istituzioni repubblicane, schiave di una rete di relazioni che tiene per le palle la democrazia, che in Italia non è mai stata tale.
Il libro “L’uomo che sussurra ai potenti”, edito da Chiarelettere nel maggio 2013, oltre ad avere un titolo ruffiano ma azzeccatissimo, è un sussidiario che dovrebbe essere studiato da tutti coloro che si occupano di politica, per poterne suggere la linfa che attraversa i centri di ogni genere e grado dove si esercita il potere in nome del popolo (cioè: contro o a prescindere dal popolo). Una testimonianza straordinaria sui meccanismi del potere “che agisce nell’ombra”.
Ma chi è davvero Bisignani? Lui detesta essere chiamato lobbista o faccendiere, preferisce descriversi con locuzioni più eleganti: “mi piacciono i grandi progetti da costruire attorno a persone intelligenti (…) Non ho mai amato apparire, non vado quasi mai a cene cui partecipano più di sei persone. E preferisco avere a che fare con un solo interlocutore così da concentrarmi su di lui e prestargli la massima attenzione (…) Il mio segreto è che rimango sempre a disposizione dei miei amici (…) Qualcuno mi chiama “triangolatore”, qualcun altro “coach”. Il giornalista Gianni Barbacetto mi ha dipinto come “l’uomo dei collegamenti”. Mentre, per il comico Maurizio Crozza, avrei addirittura “più amici di Facebook” (…) Una volta un cardinale mi definì “uno stimolatore di intelligenze”. Definizione che mi ha commosso”.
Bastano queste etichette a segnalare un aspetto niente affatto secondario: il potere è il luogo dove si governa il linguaggio, lo si padroneggia e manipola fino ad adattarlo agli usi più disparati; è il luogo dove gli ossimori non esistono ed è l’orizzonte dove gli opposti si uniscono e le differenze svaniscono.
Vengono in mente aforismi che hanno già chiarito l’arte di camuffarsi da parte di chi gestisce il comando per evitare sempre e comunque lo scontro diretto o l’indisposizione manifesta delle masse. Frasi come “la serva è ladra, la padrona è cleptomane” (i politici infatti si accompagnano con le escort, mentre gli operai vanno a puttane), oppure come quella di Ennio Flaiano “in Italia la via più breve fra due punti è l’arabesco” (ad indicare come sia necessario un estenuante calvario di trame per poter abbindolare l’opinione pubblica).
La sintesi di 300 pagine è piuttosto banale: il mondo cambia ma il potere no, è sempre uguale a se stesso, non ha colore, non conosce appartenenze né ideologie, persegue sempre indefettibilmente il proprio interesse con sovrana indifferenza.
Simbolo nazionale del potere è la Gomorra politica per eccellenza, centro mondiale della cristianità, cartolina sfavillante di una civiltà millenaria: Roma, trono dell’ultimo Imperatore che vi ha regnato dal 1946 al 2013 per 67 anni consecutivamente, Giulio Andreotti, di cui Bisignani è stato l’allievo più brillante, il suddito più fedele, il più raffinato esegeta, il suggeritore più ascoltato (“nella mia carriera ho costruito giorno per giorno un rapporto di fiducia con un uomo per me straordinario: Giulio Andreotti”).
All’intervistatore Paolo Madron che gliene chiede conto, Bisignani incide nel marmo poche parole sulla capitale: “Mio caro, lei è veneto e non può avere la piena percezione di quanto Roma sia un ventre molle che smussa tutte le differenze. E che finisce per omologare anche gli ambienti più antagonisti. Vedrà quanto poco tempo ci metteranno i grillini ad esserne fagocitati”.
Ma il faccendiere, pardon, lo “stimolatore di intelligenze” con quali strumenti agisce? “Quando riconosco una persona valida mi piace immaginare quale ruolo potrebbe ricoprire, come potrebbe sfruttare al meglio le sue prerogative. E individuata la casella? Suggerisco una strategia precisa, incoraggio, favorisco l’incontro con persone capaci di creare il consenso necessario a occuparla”.
L’ufficio di Bisignani è stato per decenni una vera e propria meta di pellegrinaggio ecumenico e trasversale da parte di politici di centro, destra e sinistra (“non ne ho mai fatto una questione ideologica. Ho sempre privilegiato l’intelligenza all’appartenenza politica”), come da parte di finanzieri, alti prelati, giornalisti (cui ha regalato camionate di notizie e scoop), servizi segreti e ufficiali dell’esercito. Egli viene “unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del Paese”, facendo nomine delicate, girando poltrone, scambiando notizie e favori, speculando su operazioni finanziarie.
Bisignani svuota in poche righe l’idea che il potere si trovi nelle Istituzioni, fornendo l’impressione che la politica ne sia quasi una vittima: “il potere si trasmette e funziona anche in luoghi meno riconoscibili e controllabili, si moltiplica e può riprodursi in maniera nascosta e a volte ambigua e misteriosa”. Quali luoghi? “L’ufficio legislativo del Quirinale, quello di bilancio della Ragioneria generale dello Stato e della Protezione civile. I fondi riservati dei Servizi segreti, i centri spesa degli enti locali. E poi alcune stanze delle Procure”.
L’intervistatore, desolato, rilancia: “Il Presidente del Consiglio conterà pure qualcosa”. Bisignani lo gela: “Solo per il suo carisma, ma di solito dura poco. (…) Credo sarà così anche per Enrico Letta che, abile tessitore di rapporti politici, ha dimostrato poco carisma quando è stato al governo da Ministro dell’Industria (governi D’Alema e Amato) e sottosegretario alla presidenza di Romano Prodi (2006-2008)”.
Il capitolo Berlusconi è illuminante: “Silvio non è mai stato un uomo di potere. È solo un uomo molto ricco che è stato capace di vincere le elezioni. Mai, eccezion fatta per la RAI, di imporre suoi candidati sulle poltrone più delicate”.
Molto dettagliato il racconto della congiura dei pidiellini contro il loro padrone: “piccoli uomini creati da Berlusconi dal nulla e improvvisamente convinti di essere diventati superuomini”. Si tratta di Renato Schifani, Angelino Alfano (dipinto come un cretino vittima dei social network, maniaco dei giochini sul cellulare e dell’oroscopo), Roberto Maroni (che avrebbe voluto Alfano successore di Berlusconi), Maurizio Lupi, Gasparri, La Russa, Mantovano, Augello, Beatrice Lorenzin (“la favorita di Angelino, premiata con il Ministero della Salute”), Raffaele Fitto ed altri ancora.
Dopo l’insediamento del governo Monti i congiurati guidati da Alfano, con l’appoggio della Chiesa (Arcivescovi Rino Fisichella e Giuseppe Betori, il Cardinale Angelo Bagnasco), la sponda di Casini e l’aiuto di Franco Frattini, coinvolsero Quagliariello, Sacconi e alcuni governatori del PDL (Formigoni, Caldoro, Chiodi, Cappellacci e Scopelliti) nel tentativo di fare fuori il Cavaliere.
La congiura fallì miseramente perché il tesoriere del PDL Rocco Crimi, “disgustato da tanti voltagabbana, spiazzò tutti rassegnando il suo incarico nelle mani di Berlusconi, come prova di fedeltà assoluta, durante un drammatico ufficio di presidenza. Chiaro che da quel momento la borsa si chiuse e non uscì più un euro. Per continuare i sogni di gloria i congiurati avrebbero dovuto metter mano ai loro portafogli”. Poveracci.
Il libro è una miniera inesauribile di notizie e di aneddoti sul potere della Chiesa, della finanza, dei servizi segreti (“Perché in Italia i Servizi sono per definizione deviati? Perché esiste una forza frenante costituita da strati rocciosi di centinaia e centinaia di dirigenti, funzionari e impiegati incapaci, entrati grazie alla politica e che per la politica continuano a lavorare”), dei media, della magistratura (Tangentopoli) e della massoneria (P2 e P4).
A proposito di massoneria, “ancora ci si chiede come abbiano fatto Gelli e la P2 a impadronirsi di pezzi importanti del sistema economico e politico. Innanzitutto grazie alla scaltrezza nel manipolare i rapporti personali e finanziari, condendoli con il fascino che la massoneria esercita in molti ambienti di tutto il mondo”.
Madron si ostina a voler chiarire l’evidenza affermando “Quindi anche per lei comandare è meglio che fottere”. La risposta: “Su questo non ci piove”.
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