Scrive e racconta, commossa, Anna Capponi sul suo profilo di Facebook " Ai sensi dell'art
530 c.p.p. Anna Capponi assolta perché il fatto non sussiste...e non perché il fatto non costituisce reato come i miei amici Fabio Capolla e Giancarlo Falconi..lacrime di gioia dopo 4 anni di sofferenze ed ingiustizie subite...ora si va avanti.
Grazie all"avv. Serena A Gasperini che ha sempre combattuto come un leone e a Simone Bonifazi mio consulente informatico..un grazie al giudice che ha riposizionato l'ago sulla bilancia della giustizia"...
La sentenza è del Giudice del Tribunale di Teramo, Antonio Converti.
Nel rito abbreviato sempre nel tribunale di Teramo, Fabio Capolla e Giancarlo Falconi, difesi dagli avvocati Giandonato Morra e Gianni Falconi, furono condannati a 160 euro di ammenda, pena sospesa.
Giudice Massimo Biscardi- pm Laura Colica.
Come reagì l'opinione pubblica?
Il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Giuseppe Giulietti, l’abnormità della sentenza non era nella quantificazione della sanzione: “Non è questo il problema che interessa – disse Giulietti – il problema è il principio: questa sentenza è un unicum, sono stati condannati cronisti che hanno dato notizia di una querela di parte che conteneva un fatto di interesse pubblico e di rilevanza sociale, di cui tutti, tra l’altro, erano a conoscenza. La decisione del magistrato va contro la giurisprudenza e in direzione opposta alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e della stessa Convenzione europea che garantisce il diritto alla libertà di espressione”.
La Cassazione, ricorso a firma dell'avv. Gianni Falconi, annullò la sentenza.
Le motivazioni.
"RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 5 febbraio 2016, il Tribunale di Teramo dichiarava Falconi Giancarlo e Capolla Fabio Massimo responsabili del reato di cui all'art. 684 cod. pen. loro rispettivamente ascritto e, operata la riduzione per la scelta del rito, li condannava, ciascuno alla pena di C. 160,00 di ammenda, concedendo agli stessi i doppi benefici di legge.
Premetteva il Tribunale che era pacifico che i due suddetti imputati avessero pubblicato gli articoli meglio descritti nel capo di imputazione riportando stralci e contenuto di una denuncia sporta da Capponi Anna, le cui indagini erano in corso; quindi, dopo avere ampiamente esposto il sistema normativo in materia delineato dal combinato disposto degli artt. 684 cod. pen., 114 e 329 cod. proc. pen., concludeva affermando che tra gli atti di indagine effettuati direttamente o per iniziativa (o delega) del Pubblico Ministero e della Polizia Giudiziaria rientrano le denunce apprese dalla polizia giudiziaria e il verbale di spontanee dichiarazioni e acquisizione documentale rese da parte privata innanzi alla stessa, trattandosi di atti destinati a confluire nel fascicolo processuale e a essere utilizzate per tutte le indagini da eseguirsi e che ricadono sotto la previsione di cui al comma 1 dell'art. 329 del codice di rito. 2. Avverso detta sentenza gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione con due distinti atti di identico contenuto. 2.1. Con il primo motivo, i ricorrenti hanno denunciato "inosservanza della legge penale di cui all'art. 606, comma 1 lett. b) cod. proc. pen. in relazione all'art. 329, comma 1, in combinato disposto con gli artt. 357, 114, commi 1 e 7 cod. proc. pen. e 684 cod. pen. poiché la denuncia scritta è atto privato non soggetto a segreto istruttorio". La difesa dei ricorrenti sostiene, infatti, che gli atti coperti da segreto ai sensi dell'articolo 329, comma 1, cod. proc. pen., sono gli atti di indagini compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, per i quali vige il divieto di pubblicazione ex articolo 114 cod. proc. pen.; e sostiene altresì che l'articolo 357 cod. proc. pen. elenca gli atti coperti da segreto istruttorio perché soggettivamente riferibili al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria e tra questi la denuncia presentata oralmente, ma non quella scritta che è atto della parte privata.
2.2. Con il secondo motivo, i ricorrenti hanno denunciato "manifesta illogicità della motivazione ex art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., poiché interamente contraddittoria per avere ritenuto il giudice di prime cure la denuncia scritta dal privato soggetta ex art. 329, comma 1, cod. proc. pen., a segreto istruttorio mentre contestualmente riteneva, in premessa, sottoposti a segreto istruttorio gli atti soggettivamente riferibili non al privato ma al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria". 2.3. Con il terzo motivo i ricorrenti hanno denunciato "mancanza di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per avere ritenuto il giudice di primo grado genericamente che il contenuto della denuncia potesse evincersi dall'informativa di polizia giudiziaria senza, tuttavia, specificare né quale attività né quali atti di polizia avessero formato il suo convincimento nel pervenire al giudizio di colpevolezza".
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il primo motivo di ricorso è fondato ed è assorbente rispetto agli altri. Osserva, infatti, il Collegio che la contravvenzione di cui all'art. 684, cod. pen., sanziona "chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento penale di cui sia vietata per legge la pubblicazione". È perciò evidente che la condotta di arbitraria pubblicazione deve riguardare "atti" o - con pari rilevanza - "documenti" che ineriscano a un procedimento penale, dei quali la pubblicazione sia vietata per legge; e che tale ultima espressa indicazione normativa - divieto per legge - impone di percorrere l'unica strada ermeneutica dotata di legittimità e cioè quella volta a rinvenire nell'ordinamento penale i termini di legge che attengano al divieto di pubblicazione di atti e documenti di un procedimento penale. In tal senso il riferimento obbligato è senza dubbio alcuno quello dell'art. 114 cod. proc. pen. il quale stabilisce al primo comma: "È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto, o anche solo del loro contenuto".
Quanto sopra premesso, per individuare gli atti e i documenti coperti dal segreto, per i quali vige il divieto di pubblicazione, ex art. 114 cod. proc. pen. e che dunque costituiscono materia del reato di cui all'art. 684 cod. pen., è necessario fare riferimento all'art. 329, comma 1, cod. proc. pen., che indica espressamente come coperti dal segreto "gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria": dunque, si deve trattare di atti di indagine effettuati direttamente o per iniziativa (o delega) dei predetti organi pubblici. Ebbene, per gli atti di indagine in senso stretto formati dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, come ad esempio gli esami di persone informate e gli interrogatori degli indagati, non si pone alcun problema relativamente alla loro segretezza, dal momento che si tratta di atti in ogni caso ricompresi nel primo comma dell'art. 329 cod. proc. pen.; mentre per la categoria dei documenti che siano entrati a far parte del contenitore processuale, la questione è ben diversa. E infatti - secondo la giurisprudenza di questa Corte - tali documenti, ai fini del segreto, rientrano nella previsione di legge ove abbiano origine nell'azione diretta o nell'iniziativa del pubblico ministero o della polizia giudiziaria e perciò quando il loro momento genetico, e la strutturale ragion d'essere, sia in tali organi. Con la conseguenza che tale conclusione non può valere ove si tratti di documenti aventi origine autonoma, privata o pubblica che essa sia, non processuale, generati non da iniziativa degli organi delle indagini, ma da diversa fonte soggettiva e secondo linee giustificative a sé stanti. Dunque, non possono rientrare nella categoria del segreto, ai fini in esame, i documenti che non siano stati compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, in conformità a quanto stabilito dall'art. 329, comma 1, cod. proc. pen., ma provengano da privati e siano entrati a far parte degli atti processuali per loro iniziativa. A tal proposito va ribadito quanto affermato da questa stessa sezione (cfr.: Cass. pen., sez. I, 9 marzo 2011, n. 13494), e cioè che tale conclusione si impone da un lato per il principio di tipicità, stante il tenore letterale di una norma integratrice di quella penale ("atti di indagine compiuti dal P.M., ecc."), dall'altro per la logica giuridica che impone di ritenere che qualità e matrice genetica di un documento possa perdere o mutare valore e significato se versato agli atti di un procedimento penale, neppure se in forza di una eventuale acquisizione disposta dagli inquirenti. E in vero, non può darsi, al termine "compiuti", di cui all'articolo 329 cod. proc. pen., un significato tanto ampio da farlo fuoriuscire dal suo intrinseco valore semantico; del resto, diversamente opinando, la disposta acquisizione in ambito processuale, a fini di indagine, renderebbe in pratica inutilizzabili documenti, come ad esempio una delibera societaria o un provvedimento amministrativo, che invece pacificamente conservano la loro piena autonomia giuridica. A maggior ragione, dunque, la denunzia scritta da una parte e da questa presentata ai pubblici ministeri o alla polizia giudiziaria non può essere considerata alla stregua di atto "compiuto" da costoro. Dalle su esposte considerazioni, consegue che gli imputati ricorrenti devono essere assolti con la formula "il fatto non sussiste", in ragione della mancanza, nella condotta loro attribuita, di un elemento essenziale della struttura giuridica del reato contestato. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché i fatti non sussistono.
Così deciso, il 2 febbraio 2017 ".
Giustizia è fatta.
In attesa del Caffè gentilmente offerto dal Tribunale di Teramo...
Qualcosa ci dovete...
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