Quando, nel 1866, venne pubblicato il romanzo “Delitto e Castigo” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, l’Italia era appena stata unificata.
Da allora, niente nella spiritualità dell’intera società occidentale è stato più uguale a prima, nulla della percezione oggettiva e soggettiva del peccato è rimasto immobile.
Raramente opere letterarie smontano pilastri consolidati della cultura dei popoli e ridefiniscono le categorie concettuali attraverso le quali le società analizzano se stesse.
La caratura intellettuale del romanzo è talmente elevata da segnare un vertice insuperato e imparagonabile, un affresco grandioso e ossessivo dell’animo umano, un viaggio alle radici dell’esistenza e ai limiti dell’ambizione.
E, al contempo, un viaggio dove l’ambizione si fonde con l’assoluto della miseria della vita umana.
Raskolnikov, lo studente protagonista del romanzo, incarna la tragedia e l’angoscia che attraversano la storia dell’uomo dilaniando il pensiero moderno, un pensiero che si confronta in profondità con la legge morale, uscendo sconfitto dal confronto.
L’opera è il più grande omaggio che l’abiezione potesse rendere all’etica, il più grande dono che la debolezza potesse fare alla forza della conservazione della specie.
Raskolnikov uccide in preda all’esercizio di una allucinata razionalità, una razionalità vittima di un gioco di specchi deformanti che configurano l’affresco di una paradigmatica eterogenesi dei fini.
L’assassino traduce in azione una morale astratta, scegliendo il crimine come bisturi per incidere il bubbone di una condizione soffocante.
Per Raskolnikov l’omicidio è dapprima un’ esigenza ineluttabile, poi, se mi si concede il furto a Henry Miller, diviene “l’idée fixe nella mente di un monomaniaco”.
Liberarsi dalle catene della morale e della legge è l’aspirazione suprema cui il protagonista soggiace, senza riuscire a superare le contraddizioni insanabili della propria natura, che lo scrittore eleva a valore universale.
Solo attraverso le forche caudine del delitto Raskolnikov si riapproprierà del senso della propria umanità, trovando nel castigo quella liberazione che pensava di poter ottenere fuori dai confini delle norme e dai vincoli della coscienza.
In quel viaggio asfissiante e vertiginoso al tempo stesso che è “Delitto e castigo”, l’autore cattura con la perizia di un entomologo lo Zeitgeist della sua epoca, fissandolo come pietra di paragone per gli uomini che si fossero addentrati nella foresta della sua narrazione.
Ho letto tre volte, ciascuna con occhi diversi, la tragedia di questo libro, umana quant’altre mai, grondante tormento, afflizione e inquietudine, come è scritto nel sangue di ciascuno.
Non resta che la sofferenza, come cifra del senso dell’esistenza
Maria Cristina Marroni
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