Se c’è un peccato originale, in queste righe che seguono, che rischio di commettere è quello che mi lega, con la passione dello storico e del ricercatore, a quel gruppo di edifici che ospitarono l’Ospedale Psichiatrico della nostra Città. Una passione che si coniuga con l’affetto per quelle antiche mura che davvero non riesco a non amare.
Non c'é nessun altro edificio a Teramo, tra quelli a destinazione civile, che abbia saputo e che riesca ancora a raccontare, come il complesso ospedaliero di Porta Melatina, la storia, la società, i sorrisi, le lacrime, le passioni, le gioie e i dolori di secoli e secoli di vite umane che sono passate tra quelle mura. L'Ospedale Psichiatrico di Sant'Antonio Abate non è soltanto un ex Manicomio, come tanti altri. È, con la vicina Cattedrale, con il Teatro Romano, con le più nobili testimonianze del nostro passato, il cuore stesso di questa Città. Quelle mura che oggi molti, troppi considerano soltanto un vecchio rudere non nacquero come Ospedale Psichiatrico, ma come ospizio di ricovero e cura dei bisognosi e degli indigenti. Divennero poi ospedale generale e, nel 1881, nei noti anni del grande internamento manicomiale, ospitarono esclusivamente i pazienti affetti da disturbi psichici. 675 anni visse questo glorioso ospizio di Sant'Antonio Abate, di cui 117 come Ospedale Psichiatrico. Il più grande del centro-sud d'Italia e uno dei maggiori d'Europa.
La data di nascita di questo storico complesso è il 28 febbraio 1323: un teramano dell’epoca, Bartolomeo Zalfone, donò alcuni dei locali di sua abitazione al fine di ospitarvi un ricovero per persone indigenti, mendicanti, malate ed orfane. L’amministrazione dell’opera fu affidata al Capitolo della Cattedrale, quindi alla Chiesa aprutina. Il fine principale della struttura, intitolata a Sant’Antonio Abate, fu dunque quello assistenziale: carità cristiana e scienza dell’epoca furono i connotati che contraddistinsero quell’ospizio per secoli e secoli di onorato servizio alla Città.
Gli anni dell’Unità d’Italia determinarono un cambiamento dell’assetto legislativo del tempo: le norme dell’epoca sancirono un progressivo potenziamento dell’assistenza sanitaria, in quello che col tempo veniva sempre più trasformandosi in un vero e proprio ospedale generale, cui continuava tuttavia a corrispondere, come un binomio sacro, una parte assai forte di attività sociale. Nacquero così le Congregazioni di carità, nel 1937 trasformate poi in Enti comunali di assistenza: a Teramo sorse così l’ente conosciuto con il nome di Ospedali ed istituti riuniti.
All’epoca della presidenza di Berardo Costantini, uomo assai noto a Teramo e già Sindaco della Città (fu lui a far installare sulla Torre del Duomo il nuovo orologio monumentale), la Congregazione di carità istituì all’interno dell’ospedale di Sant’Antonio Abate una specifica Sezione Manicomiale: era il luglio 1881. Il primo reparto psichiatrico a Teramo sorse quindi come una semplice sezione dell’ospedale civile.
Siamo nel periodo del grande internamento manicomiale fra ottocento e novecento: l’aumento del numero dei pazienti trattati e il progressivo ampliamento delle casistiche cliniche determinarono, da parte della Congregazione di carità (prima) e degli Ospedali ed istituti riuniti (poi), una progressiva espansione logistica di quella che ancora era un semplice reparto dell’ospedale civile. Al nucleo storico centrale del fabbricato, quello che attualmente ospita l’arco di Porta Melatina e la chiesa di Sant’Antonio Abate, furono dunque affiancati nel tempo ben sei padiglioni per l’accoglienza di una popolazione trattata sempre crescente.
Nel 1925 l’ospedale civile fu intitolato al Re Vittorio Emanuele III e venne trasferito nella nuova sede di Viale Crucioli, dove ora c’è il Rettorato dell’Università. Nei decenni successivi, come noto, un secondo trasferimento porterà l’ospedale civile (che nel frattempo aveva cambiato denominazione in Giuseppe Mazzini) nella nuova, attuale sede di Villa Mosca. I locali del complesso di Porta Melatina, così liberati, furono conseguentemente tutti adibiti all’assistenza manicomiale: nasceva ufficialmente così l’Ospedale Psichiatrico di Teramo. Uno dei punti di riferimento, in Italia e in Europa, nell’assistenza agli alienati e nella ricerca in campo psicoanalitico. I Direttori che si sono succeduti alla guida dello Psichiatrico furono tutti medici di fama nazionale: il nome di Marco Levi Bianchini, ancora oggi ricordato come uno dei padri della psicoanalisi in Italia, è sufficiente per dare un’idea della straordinaria importanza che rivestiva il nostro Ospedale nel Paese.
Vennero quindi gli anni settanta: la legge Basaglia (prima) e la legge sul Servizio Sanitario Nazionale (poi), istituendo le Unità Sanitarie Locali, separarono definitivamente l’assistenza sanitaria da ogni altro tipo di assistenza. L’istituzione manicomiale, messa in crisi da tempo, ormai aveva il destino segnato: l’Ospedale Psichiatrico di Teramo chiuse il 31 marzo 1998, segnando la fine di 675 anni di onorato servizio alla Città.
Quelle mura, che tante vite avevano ospitato e protetto, divennero ormai vuote. Questo immenso complesso, il cui valore storico e le cui dimensioni non sono tuttora ben compresi dai teramani, resta un fantasma spettrale nel centro storico di una Città che non appare capace di guardare col cuore a quegli edifici. All’interno di essi, in completo abbandono, attendono ancora di essere recuperati documenti, letti, pigiami, scarpe, suppellettili appartenute ai degenti, macchinari, mobilio, piatti. Testimoni di lacrime e di gioie di tante vite umane. Cosa fare, quindi?
Ad essere sincero, non nascondo che i progetti di recupero e trasformazione di un complesso immobiliare che vale milioni di euro in centro direzionale e commerciale non mi convincono del tutto. Non mi convincono da un punto di vista operativo, ma ancor più dal punto di vista del cuore. L’ospedale di Sant’Antonio Abate nacque con finalità sociali: assistenza caritatevole (prima) ed assistenza sanitaria (poi). A quello dovrebbe tornare, a mio parere. 675 anni di storia non possono e non devono essere cancellati così.
La mia idea è quella di pedonalizzare del tutto Via Aurelio Saliceti, dotandola di una più elegante pavimentazione e rendendola davvero uno dei punti più belli di accesso al centro storico: una serie di caffè e ristoranti in stile, aperti su questa strada, farebbero binomio con il restauro conservativo del nucleo principale del complesso. L’arco di Porta Melatina e l’arco di Vico delle Recluse, architettonicamente assai interessanti, sono testimoni eccellenti dei più felici interventi ottocenteschi nella Teramo storica.
Il resto della struttura dell’Ospedale Psichiatrico, opportunamente recuperata e non stravolta (giova ricordare che trattasi di una serie di edifici vincolati, con una storia notevolissima), potrebbe ben adattarsi ad ospitare attività di carattere differente. Una sezione, più o meno ampia, la riserverei alle finalità originarie per le quali nacque il complesso sin dal 1323: quelle sociali.
Il mio sogno? Vorrei che almeno un’ala della struttura fosse destinata ad ospitare quello che desidero da tempo: una sorta di Museo della Psichiatria, sulla scorta di quanto lodevolmente e fortunatamente avvenuto in realtà quali Roma (Santa Maria della Pietà) o Volterra. Esporre, nei locali che hanno ospitato i dolori e le vite di tante anime sofferenti, una mole incredibile di materiale utilizzato in varie epoche storiche all’interno dell’Ospedale Psichiatrico (documenti d’archivio, mobili, suppellettili, oggetti personali, strumentazione medica, fotografie, abiti e testimonianze del passato) credo sia il modo più giusto ed eticamente più nobile per onorare quelle mura e lo scopo per il quale nacquero.
Ancora oggi sono incapace di accostarmi con distacco a quei padiglioni mille volte studiati in ogni minimo dettaglio. Eppure, passando accanto a quel complesso e percorrendone i corridoi, l’affetto per una struttura storica di quell’importanza si coniuga con un imprescindibile, doveroso, fondamentale rispetto verso mura e locali che, prima di noi, hanno ospitato secoli di vita.
Non si costruisce il futuro se non si conosce, e non si rispetta, il proprio passato. Soprattutto se così nobile. Vorrei che questa Città ne fosse memore.
Fabrizio Primoli
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