Nel 1887 fu rappresentato “Ivanov”, il primo dramma di Čechov, in quattro atti. Esso racconta la crisi morale di un uomo di trentasei anni, fallito e disincantato per la sua vita trascorsa in una insignificante e intorpidita cittadina della Russia.
Ivanov disprezza ormai la propria moglie, alla cui morte per tubercolosi parteciperà con estrema indifferenza.
Cerca una chimerica rinascita nell’amore per un’altra donna, Saša, che intravede in lui un animo spiritualmente elevato, al contrario dei suoi mediocri concittadini.
Sposare Saša significherebbe salvarsi dalla precarietà finanziaria. Ma ciò non si verificherà, perché un giovane e onesto medico, L’vov lo insulterà pubblicamente, quale arrampicatore sociale e approfittatore. Allora, in un sussulto d’orgoglio, Ivanov si ucciderà.
Ivanov è un personaggio controverso: c’è chi lo ama, riconoscendo in lui un animo nobile, e chi, invece, lo disprezza perché volgare e superficiale. Tuttavia non bisogna interpretarlo come un eroe di un dramma classico, con un’azione lineare. “Nella tragedia classica, il dramma dell’eroe finiva sempre con lo sviscerarsi completamente; invece Ivanov si denuncia, ma non enuncia mai il suo vero dramma. Forse perché non esiste. Chi davvero sia questo psicastenico, aldilà dell’ammirazione delle innamorate e degli insulti dei nemici, resta un enigma, anche per se stesso” (Sergio Benvenuto). Čechov introduce un eroe che “non è più tragico: è psichiatrico”. Ivanov assiste come attore e spettatore al progredire della propria malinconia: “Adesso non faccio niente e non penso a niente, eppure sono stanco nel corpo e nell’anima. La coscienza mi tormenta giorno e notte, sento di essere profondamente colpevole; ma in che cosa consista la mia colpa non capisco”.
Il protagonista si lamenta della sua condizione, ma non riesce a comprendere veramente le inclinazioni e i desideri personali. Nel rammarico per la propria indolenza “si compie il passaggio dalla malinconia classica e romantica alla depressione moderna”.
La paura che pervade il racconto è che gli uomini spesso disattendono le proprie ambizioni a causa della “skuka”, ovvero la mancanza di mordente, la pigrizia, la noia.
“La noia è lo specchio grazie a cui avvertiamo il greve fluire del tempo”. La noia è rivelatrice del nulla dell’essere rinchiuso in se stesso.
Senza comunione con gli altri, un uomo nella solitudine “intristisce, deperisce e sente (oscuramente) che da solo, non esiste”.
L’atmosfera e gli stati d’animo qui presenti si ritroveranno nel più tipico teatro cechoviano: da “Il gabbiano”, 1896, a “Zio Vanja”, 1897, a “Le tre sorelle”, 1901. Questi tre drammi ebbero molta risonanza, cui contribuirono anche le magistrali interpretazioni del Teatro d’Arte di Mosca. In esso l’autore trovò i segni di quella rivoluzione culturale a cui egli stesso aspirava, creando un teatro precocemente moderno che “ci fa trarre un piacere struggente dalla noia”. Un teatro che “non ci purga, bensì ci commuove con la noia altrui”.
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