Durante la nostra adolescenza la lettura era fondamentale. Non c’era molto di più, soprattutto durante le interminabili estati prima del rientro a scuola, che allora non si verificava mai prima della seconda metà di settembre. Non esistevano i social network e quando si provava il desiderio di incontrare persone lo si faceva dal vivo, ci si scambiava una strizzatina d’occhi e via a combinare birichinate, immedesimandosi talvolta nei personaggi fascinosi dei nostri libri.
Ho incontrato molte volte nella mia vita “Pinocchio”: nel libro di Collodi regalatomi da mia nonna, nel bel cartone giapponese arrivato in Italia nel 1980 (http://www.youtube.com/watch?v=Szyu_kpDdRg), al teatro dell’Angelo di Roma nel 1998 nello straordinario adattamento di Carmelo Bene “Pinocchio, ovvero lo spettacolo della Provvidenza”. Così esordiva l’attore e regista: “Rispettabile pubblico ed inclita guarnigione dell’uno e dell’altro sesso essendo di passaggio per questa illustre Metropolitana mi sono voluto il bene il piacere l’onore e il vantaggio di presentarvi davanti agli occhi un noto burattino sconosciuto finora in questi paesi e del quale forse avrete veduto il compagno ma non il simile”.
Per Carmelo Bene il suo Pinocchio era “un’inumazione prematura di una salma infantile che scalcia nella propria bara". Bene sosteneva di essersi ” come Pinocchio rifiutato alla crescita” come “la chiave del suo smarrimento gettata in mare una volta per tutte” e di “essersi alla fine liberato anche di sé”.
Infatti “Pinocchio” non è mai simile a se stesso, sfugge a ogni possibilità di prossimità. Insieme ribelle, incosciente, profittatore, ma anche ingenuo.
Tante sono le parti che da piccola mi impressionavano: l’impiccagione al ramo della quercia; le ruberie del Gatto e la Volpe; il Paese dei Balocchi, fascinoso, ma ingannevole, dove il burattino si trasforma in asino; il perfido Lucignolo; le promesse alla fata dai Capelli Turchini puntualmente disattese; il ventre del pescecane e infine la trasformazione in bambino.
All’inizio del romanzo c’è poi l’episodio delle bucce di pera: Pinocchio ha molta fame, per questo urla e strepita, Geppetto gli destina tre pere, ma il burattino le vuole rigorosamente sbucciate. Il falegname allora pronuncia una delle frasi più note: “In questo mondo fin da bambini bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!”.
Pinocchio ha però ancora fame e, in mancanza d’altro, deve mangiare le bucce e i torsoli.
“I casi son tanti!”. Sì, ci sono diverse possibilità nella vita: esistono il bianco e il nero, ma anche il grigio, il colore che il burattino sembra prediligere, quella via di mezzo sempre insoluta, insieme libertà e conformismo, letizia e dolore, povertà e ricchezza.
In ogni età della vita s’ incontra un qualche Pinocchio che disubbidisce, crea confusione, disturba, che “mai non s’arresta”.
Perché il miracolo collodiano è di aver riprodotto, più con le parole che con il legno, il miracolo dell’adolescenza, la carne e il sangue della vita, delle sue insolubili contraddizioni che ciascuno ha potuto sperimentare prima di raggiungere la maturità.
Commenta
Commenti