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Libri...Acciao

di Maria Cristina Marroni
6 minuti

“Acciaio” è incontestabilmente un bel romanzo. La giovane autrice, Silvia Avallone, lo ha pubblicato presso la casa editrice Rizzoli nel 2010 quando aveva solo 25 anni. Un’età nella quale si può certamente dare prova di bravura, ma difficilmente si riesce a levigare la propria opera al punto da renderla scorrevole come il piano di un biliardo.

Questo è infatti il pregio principale del libro: la scioltezza della narrazione ed una sapiente elaborazione della scrittura che rendono molto appetitosa la lettura, invitando a leggere le 350 pagine tutte di un fiato. È raro incontrare un libro che abbia la stessa piacevolezza di un piatto di spaghetti alle vongole, che mangi dalla prima all’ultima forchettata con gusto e soddisfazione.

 L’autrice ha un talento cristallino che lascia ben sperare per le successive prove, e indovina il soggetto e la trama in maniera compiuta e naturale, rivelando una capacità di approfondimento che tradisce – immagino – esperienze vissute in prima persona.

 Il romanzo è ambientato a Piombino. I personaggi ruotano tutti intorno all’acciaieria che domina fisicamente la città come un padre padrone. Protagoniste sono due amiche quattordicenni, Anna e Francesca, legate da un sentimento inscindibile che l’adolescenza scioglierà come neve al sole.

 Vivono dentro giganteschi condomini popolari dove l’ignoranza, l’abiezione e il degrado morale entrano a far parte del DNA. Qui l’ascensore sociale è inesistente e la condanna ad una vita squallida e brutale sembra rivelarsi un destino ineludibile. I padri, che lavorano all’acciaieria, non vi si sottraggono; né le mogli riescono a trarsene fuori, risucchiate anch’esse nel vortice di una quotidianità frustrante e prosaica cui non sanno opporsi nemmeno quando la violenza familiare le umilia e ne cancella ogni velleità individuale, al pari della femminilità.

 “Il mare e i muri di quei casermoni sembrano la vita e la morte che si urlano contro. Non c’era niente da fare: via Stalingrado, per chi non ci viveva, vista da fuori, era desolante. Di più: era la miseria”.

 I figli, sin dalla pubertà, imparano presto che l’atmosfera soffocante nella quale stanno crescendo finirà per asfissiarli e si rifugiano dentro la fantasia per accedere ad un minimo di precaria felicità.

 Cosa significa crescere in un complesso di quattro casermoni, da cui piovono pezzi di balcone e di amianto, in un cortile dove i bambini giocano accanto a ragazzi che spacciano e vecchie che puzzano? Che genere di visione del mondo ti fai, in un posto dove è normale non andare in vacanza, non andare al cinema, non sapere niente del mondo, non sfogliare il giornale, non leggere i libri, e va bene così?”.

 Alessio, il fratello di Anna, giovanissimo anche lui ma già operaio dell’acciaieria, provato da un’esistenza che lo consuma fisicamente almeno quanto psicologicamente, confessa ai suoi amici: “La vita mi devasta”. Suo padre, un poco di buono, si dilania nel vederlo ripercorre i suoi stessi passi nella medesima fabbrica: “Era diventato un operaio, suo figlio, gli era venuta la mentalità dello sfigato che paga le tasse e lo prende nel culo”.

 Il collasso etico nel quale è immersa la società acciaio-dipendente non può trovare redenzione alcuna, né l’autrice indulge nel cercarla, pur dando voce agli aneliti di riscatto che pure si agitano al fondo delle coscienze anestetizzate, con ciò tessendo un sottile filo di speranza che attraversa l’intero libro, finendo comunque per non condurre in nessun porto e perdendosi in un deserto politico e sociale dove nessuna salvezza è possibile, né mai lo sarà (“C’era poco da star allegri in quella scena da ultima periferia dello spirito”).

 Automobili che sfrecciano, night club, cocaina, alcol, sudore, motorini, spiagge affollate, polvere di ferro, violenze domestiche, sogni, volgarità, parolacce, la fabbrica soprattutto, sono gli ingredienti che compongono un affresco nel quale il linguaggio, aderendo perfettamente al contesto rappresentato, è il distintivo più pertinente di una realtà che trasuda povertà di spirito (“le parole non servono a niente” è una frase che si ripete tristemente nel libro in insistite varianti: “non si amano le parole, non ti cambiano. Le parole non aggiustano le cose”; oppure: “Tanto, cosa avrebbe potuto dirle? Le parole non aggiustano un tubo”).

 Studiare, per una delle due amiche, resta l’unica zattera che potrebbe tenerla a galla nel mare plumbeo del futuro. L’altra viene risucchiata in un destino di abiezione, dove il confine fra il lavoro operaio e la prostituzione non è più visibile.

 L’operazione meglio riuscita all’autrice è quella di creare un opprimente senso di impotenza, di inanità, di totale incapacità di reazione, conseguenza di una parimenti integrale mancanza di mezzi fisici, economici e intellettuali. E l’impotenza è tanto più evidente, quanto più traspaiono barlumi di lucidità: “c’è una parte giusta e una parte sbagliata. E continuare a fare finta di niente è la parte sbagliata”.

 Non c’è espiazione per il peccato originale, non ci sono lenimenti, nemmeno rifugiarsi nel passato: “Un ricordo è una merda morta”. Non ci sono prospettive, né conquiste, si continua solo a perdere, a perdere sempre , in una spirale senza ritorno: “dove finiscono le cose che perdi?”.

 In un tale deserto valoriale, dove l’educazione è bandita dai rapporti umani (“un “ciao” comprensibile solo attraverso il labiale, glielo aveva buttato lì come un’elemosina schifata”), l’adolescenza avvizzisce in una impossibile maturità: “Tu sei convinto che devi avere di più, di più, ogni giorno che passa. Che questa è la logica delle cose. Invece capita che hai di meno, di meno, ogni giorno che passa”.

Quando la gioventù trasfigura in un calvario di perdizione, la civiltà rinnega se stessa e la società ha fallito.

 


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LA PATTUMIERA DEL MONDO CIVILE osservato con lenti un po deformate della autrice (partenopea di origine? ) che ha ambientato il romanzo in quel di piombino che , tuttavia , sembra scampia con le sue vele ed i suoi inquilini. Guerra tra sessi, l'uomo , il maschio sembra essere una maledizione che suscita sentimenti di avversione ed ostilità . Agli occhi delle donne è una potenza straniera violenta, oppressiva, corrotta e inaffidabile. Timidamente ritengo che la guerre tra poveri in contesti degradati non merita indignazione populista perché è lo specchio deprimente della società ricca e prevaricatrice votata al successo a tutti i costi. Pasolini lo chiamava "genocidio culturale" : tale mattanza coinvolge TUTTI nella società globalizzata dei consumi . Lo squallore non è prerogativa della povertà. Il marcio fa parte della natura umana (maschile e femminile) egoista ed ipocrita. Buona domenica di settembre
Non ho ancora letto il libro,ma presto lo faro'. Dalla recensione domenicale,sempre attenta e precisa ,emerge un quadro a dir poco desolante. La storia di Piombino,città' antifascista e operaia per eccellenza, e'tutt'altra cosa,il degrado non ha fatto breccia nelle coscienze dei lavoratori . Felice inizio settimana.
Questo romanzo mi ha colpito molto, quando l'ho letto in occasione dell'uscita del film. La Avallone è scrittrice promettente. Staremo a vedere in futuro.
Sig. Aznavour, è un piacere ritrovarla. Sig. Antoine, la ringrazio per la preziosa attenzione, ho risposto alla sua sollecitazione sulla questione dei concorsi di bellezza. Anche se in ritardo, buona settimana.