Nel 2010, in seguito al disastro petrolifero occorso nel Golfo del Messico, l’allora Ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo chiese ed ottenne una modifica al Codice dell’ambiente del 2006. In base a questa modifica, si stabiliva che, da quel momento in poi, non sarebbe stato più possibile cercare ed estrarre gas o petrolio all’interno di aree marine o costiere protette a qualsiasi titolo. Il divieto veniva, quindi, esteso anche all’esterno di quelle aree protette, per 12 miglia marine ancora. Per il solo petrolio, invece, esso avrebbe trovato applicazione lungo tutta la fascia marina della Penisola italiana, entro le cinque miglia dalla costa. Infine, si stabilivano ancora due cose:
1) che il divieto dovesse riguardare anche i “procedimenti autorizzatori in corso”, vale a dire a tutte quelle richieste di ricerca o di estrazione, che, alla data di entrata in vigore della modifica, non avessero avuto ancora il rilascio di un titolo minerario;
2) che, tuttavia, restassero in piedi i titoli minerari già rilasciati alla data di entrata in vigore della modifica: questo vuol dire che se una società petrolifera fosse stata autorizzata prima del 2010 a cercare petrolio o ad estrarlo in una zona protetta, avrebbe potuto continuare a farlo. Il passato è passato.
Nell’aprile di quest’anno, il Governo ha introdotto un’ulteriore modifica a quanto voluto nel 2010 dall’ex Ministro Prestigiacomo, stabilendo che dovessero restare in piedi i titoli già rilasciati “anche ai fini delle eventuali proroghe”. In che senso? Faccio un esempio: se una società petrolifera fosse stata già autorizzata prima del 2010 a cercare o ad estrarre petrolio, avrebbe potuto chiedere di farlo per due, tre, quattro anni ancora. Il passato, evidentemente, non è del tutto passato, poiché – secondo il Governo – è in condizione di proiettare la sua ombra anche sul futuro.
Ora, per cercare ed estrarre petrolio, la società petrolifera deve presentare due distinte istanze al Ministero dello sviluppo economico: con la prima chiede un “permesso di ricerca”; con la seconda chiede una “concessione” alla “coltivazione”. Le due attività sono collegate, certo. Pur tuttavia, si tratta di due diversi “procedimenti autorizzatori”, che terminano con due diversi “titoli minerari”.
Torniamo a quanto voluto dall’ex Ministro Prestigiacomo. Alla data di entrata in vigore della modifica, chi avesse avuto un permesso per cercare petrolio, avrebbe potuto continuare tranquillamente a farlo. Ma una volta trovato il petrolio, se avesse chiesto al Ministero l’autorizzazione ad estrarlo, il Ministero non l’avrebbe concessa. Perché? Perché la modifica legislativa consentiva di preservare solo quel che già si aveva, non già quel che si chiedeva ex novo. Se però così è, come giustificare, allora, la modifica introdotta nell’aprile di quest’anno dal Governo? Mi spiego: se io sono tuttora titolare di un permesso per cercare petrolio – permesso che risale a prima del 2010 – non ho nessun interesse a chiedere nel 2012 che mi venga concessa un’ulteriore proroga di due, tre, quattro anni ancora per continuare a farlo, sapendo che, poi, non mi sarà certo possibile estrarlo (stante, appunto, il divieto delle 5 e 12 miglia marine). Che ci faccio? Questo dubbio mi ha torturato per mesi. Ma oggi mi è abbastanza chiaro cosa ci potrei fare.
Il “Decreto sviluppo” – che presto arriverà sul tavolo del Governo – contiene un articolo, che inciderà sulla modifica voluta nel 2010 dall’ex Ministro Prestigiacomo. In esso si dice quanto segue: “All’articolo 6, comma 17, del decreto legislativo3 aprile 2006, n. 152, al quinto periodo dopo le parole “autorizzatori” e prima delle parole “in corso” sono aggiunte le seguenti: “di cui all’articolo 4 e 6 della legge n. 9 del 1991”. Traduco:
1) il divieto delle 5 o 12 miglia marine si applica sì anche ai “procedimenti autorizzatori” in corso, ma solo a quelli che dovessero interessare le acque del Golfo di Napoli, del Golfo di Salerno e delle Isole Egadi. In questo caso, esso riguarda tanto la ricerca quanto l’estrazione del petrolio e del gas. Precisazione, a dire il vero, inutile, poiché detto divieto è (almeno in parte) già contenuto nella legge del 1991, che il “Decreto sviluppo” si premura di richiamare;
2) il divieto delle 5 o 12 miglia marine si applica sì anche ai “procedimenti autorizzatori” in corso, ma… limitatamente ai “permessi di ricerca”. Questo vuol dire che, dal momento in cui entrerà in vigore il “Decreto sviluppo”, non sarà più possibile chiedere nuovi permessi di ricerca. Ergo: si potrà, però, estrarre petrolio. Nel senso che chi è già titolare di un permesso di ricerca del petrolio o del gas, che risalga a prima del 2010, e che abbia nel frattempo presentato un’istanza di concessione di coltivazione, potrà ora tranquillamente estrarlo, anche se questo dovesse avvenire – per avventura – a 200 metri dalla riva.
Ma come giustifica questa scelta il Governo? Nella relazione che accompagna il “Decreto sviluppo” si legge: “La norma sblocca 4,5 miliardi di investimenti in 8 progetti di sviluppo di giacimenti già individuati e perforati ma non ancora messi in produzione, altrimenti destinati a restare improduttivi con oneri a carico dello Stato, evitando inoltre richieste di risarcimento da parte delle imprese allo Stato italiano per la revoca degli affidamenti fatta ad investimenti in corso”.
Come dire: se non accordiamo la concessione ad estrarre petrolio, lo Stato italiano dovrà risarcire con milioni e milioni di euro le compagnie petrolifere per gli investimenti effettuati.
Non vorrei sbagliarmi, ma a me pare che non sia così. La modifica voluta dall’ex Ministro Prestigiacomo teneva (e tiene tuttora) distinte due ipotesi: i “procedimenti autorizzatori in corso” e quelli già conclusi. Nel codice dell’ambiente si legge, infatti: “Resta ferma l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati” alla data di entrata in vigore della legge. Questo significa che se io possiedo un titolo per estrarre petrolio, qualora mi fosse impedito improvvisamente di farlo, potrei legittimamente chiedere un risarcimento milionario. Qualora, invece, un procedimento autorizzatorio fosse in corso, non avendo ancora alcun titolo per estrarre petrolio, non avrei neppure alcun diritto per chiedere un risarcimento milionario.
Certo, nell’attesa che il procedimento autorizzatorio si concluda, le società petrolifere potrebbero aver già investito e non poco. Ma, allora, la questione si sposterebbe su un piano diverso, in quanto concernerebbe il rischio, che, da sempre, accompagna inevitabilmente l’iniziativa economica privata: del piccolo imprenditore, così come della più grande multinazionale.
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