Ho finalmente sotto gli occhi il regolamento sulle riprese audiovisive approvato ieri sera dal Consiglio comunale di Casalbordino. Appena 4 articoli; due pagine in tutto. In premessa si illustrano anzitutto le ragioni che hanno indotto il Consiglio a varare l’atto: “in una società democratica” – si legge – “è indispensabile favorire e promuovere la partecipazione dei cittadini alle questioni di pubblico interesse e in generale alla gestione della “cosa pubblica”, sfruttando pienamente le tecnologie a disposizione”. Giusto. Qualche riga più sotto, però, si afferma che un regolamento siffatto è “necessario e opportuno”, in quanto mira a garantire, in primo luogo, “il decoro dell’organo consiliare e, in secondo luogo, il rispetto delle garanzie previste” dal “Codice della privacy”. In che modo detto obiettivo possa conciliarsi con le ragioni della democrazia locale non appare, tuttavia, di immediata evidenza. Vediamo, allora, come questa idea vorrebbe tradursi nel regolamento: 1) solo il Comune è legittimato a filmare le sedute del Consiglio; 2) solo il Comune può (non deve) diffondere successivamente “sul web oppure su rete televisiva” quanto documentato in fase di ripresa; 3) il consigliere comunale “non ha facoltà di pubblicizzare sul proprio sito internet il materiale documentale ricevuto nell’esercizio del diritto riconosciutogli dall’art. 43, comma 2” del Testo Unico degli Enti locali. Soffermiamoci su questi tre punti.
Nel mio intervento di ieri ho sottolineato come l’attività di videoregistrazione delle sedute e di successiva diffusione di quanto filmato costituisce per certo esercizio di un diritto costituzionalmente sancito: quello di informare liberamente chiunque. Ed ho anche precisato che l’attività di ripresa può essere vietata dal sindaco quando si tratti di garantire lo svolgimento ordinato dei lavori del Consiglio, mentre non può essere vietata (dal regolamento) quando il Consiglio affronti questioni che toccano (presumibilmente) la privacy delle persone. Dico questo perché se, nel primo caso, è pacifico che il sindaco debba tutelare il buon funzionamento dell’organo (democratico), nel secondo caso dovrebbe essere altrettanto pacifico che solo la legge possa disciplinare il diritto alla riservatezza. Ma è evidente che per il Consiglio comunale così non è, posto che nessuno, al di fuori del Comune, potrà da oggi in poi riprendere e diffondere quanto discusso in Consiglio.
Ora, in che modo la sola ripresa audiovisiva possa arrecare un danno alla riservatezza delle persone resta un mistero, visto che un problema di questo tipo si porrebbe semmai in seguito, e cioè nel momento in cui si passasse a diffondere sul web o sulla rete televisiva quanto ripreso. A meno che, si intende, non si trasmetta in streaming o in diretta televisiva. Tuttavia, se si ritenesse che la trasmissione in streaming o in diretta televisiva comporti un potenziale rischio per la riservatezza delle persone e che per questo motivo debba essere vietata in radice, allora dovrebbe anche ammettersi che ogni seduta del Consiglio sia da tenere a porte chiuse, dato che la presenza del pubblico in aula lascerebbe correre in ogni caso un rischio di questo tipo. I conti non tornano.
Il problema vero, si penserà, è la diffusione di quanto ripreso, non già la ripresa in sé. Bene. Ma quand’anche fosse così, si può forse negare che l’ordinamento giuridico non appresti alcuna garanzia in favore di colui che si sentisse offeso dal materiale diffuso sul web o in tv? Non potrebbe forse egli agire in sede giurisdizionale per la tutela dei propri diritti?
Vengo al terzo punto. Il consigliere comunale – si legge nel regolamento – “non ha facoltà di pubblicizzare sul proprio sito internet il materiale documentale ricevuto nell’esercizio del diritto riconosciutogli dall’art. 43, comma 2” del Testo Unico degli Enti locali. Qui mi pare si vada addirittura oltre la questione della tutela della privacy, in quanto al consigliere è fatto divieto di pubblicare qualunque documento che sia in suo possesso. La prova? Guardiamo quel che stabilisce l’art. 43 del TUEL richiamato dal regolamento: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”. Come si vede, il divieto introdotto dal regolamento concernerebbe ogni documento in possesso del consigliere e non solo quelli che potrebbero violare la riservatezza delle persone. E questo nonostante l’art. 43 sia sufficientemente chiaro: il consigliere può diffondere quel che vuole, tranne quel che la legge – e non il regolamento – gli dice di non diffondere.
Il regolamento, tuttavia, prevede un’eccezione: se è vero che solo il Comune può effettuare le riprese e diffondere il materiale girato, in casi straordinari il sindaco può autorizzare i giornalisti alla “attività di videoripresa e trasmissione delle sedute”. Da oggi in poi, ergo, se un giornalista volesse non solo riprendere, ma anche trasmettere – magari nel corso di un telegiornale – parte delle sedute del Consiglio dovrebbe previamente chiamare il sindaco e farsi rilasciare un’autorizzazione. E questo giusto perché la Costituzione dice che l’informazione non può essere soggetta ad autorizzazioni.
Andiamo avanti. Secondo quanto stabilisce ancora il regolamento, quand’anche il giornalista avesse in mano l’autorizzazione, ciascun consigliere, “in occasione del proprio intervento”, potrebbe comunque “manifestare il proprio dissenso alla ripresa e divulgazione della propria immagine”. Si dirà: è un’eccezione all’eccezione, che nulla ha a che vedere con il diritto alla riservatezza, dato che il consigliere pensa e parla nell’esercizio di una funzione pubblica. Certo. Ma è una previsione che – unitamente al resto del regolamento – colpisce davvero al cuore il decoro di un organo.
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