In un’ era di profonda crisi culturale e sociale, il merito è diventato il mantra della politica.
Destra, sinistra, centro, sopra e sotto…senza distinzione alcuna, quando non sì sa come tappare un discorso, tutti fantasticamente parlano di merito senza averlo mai meritato (che poi, questa gente, avrà mai sostenuto un colloquio di lavoro?).
Eppure nel suo saggio “L’avvento della meritocrazia” il sociologo Michael Young si riferisce a un immaginario Manifesto di Chelsea, non lontano dal progetto di riforme da lui stesso proposto, in cui si sostiene che l'intelligenza è una funzione complessa, non misurabile con indici matematici né riducibile ad unica espressione.
Ma chi è in grado di definire veramente il merito? Una domanda questa che fin dai tempi del “governo dei migliori” di Platone aveva dato filo da torcere. Ed ancora oggi filosofi, economisti e politici si affannano alla ricerca di una risposta. Che poi, esiste realmente una risposta?
Young, con un tono altamente dissacratorio, finge un elogio al merito che costringe alla riflessione.
Egli sostiene che l’interpretare il paradigma della meritocrazia con un aurea positiva conduce a due pesanti controeffetti negativi. Il primo è quello di affidare la selezione della classe dirigente a quella che qualcuno ha definito “lotteria naturale”, ovvero a quelle condizioni fortuite ereditate dalla nascita (etnia, classe sociale e genere) , che per molti non dovrebbero essere prese in considerazione ma a cui inevitabilmente bisogna far riferimento. E’ molto difficile che un bimbo nato nelle favela possa diventare un grande scienziato…è possibile ma resta difficile!
Il secondo è il criterio di misura dell’intelligenza attraverso la triste scienza del quoziente intellettivo Q.I.. Secondo Young, una volta misurato in modo oggettivamente scientifico il Q.I., si potrà sapere, fin da subito a che lavoro destinare gli adulti senza risentimento alcuno per i più svantaggiati. Insomma chi sarà destinato ai lavori più umili, finirà per adattarsi al suo status, senza chiedere di più, perché la scienza ha così deliberato. Si ottiene quindi una società stratificata in classe “alfa”, classe “beta”, e compagnia catando.
Il risultato? Una chiara riduzione della libertà di azione a vantaggio dei ceti più abbienti.
Con un volo pindarico, credete che la società di oggi funzioni diversamente?
Credete ancora alla favoletta che i posti prestigiosi siano ricoperti dai migliori o dai migliori “stessi”?
Cos’è dunque il merito?
Young risponde che il fine dell’istruzione, anziché quello di emarginare gli «individui a lenta maturazione», dovrebbe essere quello di promuovere la varietà delle attitudini secondo l'idea che ogni essere umano è dotato di un talento diverso, ma non per questo meno degno di altri.
Ma da tecnicacci, abituati all’arte del probabile e del possibile, si cerca ora qualche alternativa alla rigida posizione di Young.
Partiamo dalla Costituzione Italiana che all’art. 34 recita:
“La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle
famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”
E anche qui, spuntano i primi problemi:
- •Chi valuta la capacità ed il merito? È uno scoglio, in quanto un giudizio comunque soggettivo, magari anche pronunciato da una persona proba e con le migliori intenzioni, può affondare tutte le speranze e prospettive del valutato. La soluzione più facile è eliminare la valutazione, oppure dare a tutti il massimo (era uno degli obiettivi del ’68 ed ora tanto desiderato da parecchi lavoratori anche del pubblico impiego) ma così si applicherebbe il famoso detto di Carlo V “todos caballeros”. Una alternativa, utilizzata nelle grandi aziende, è quella di rimettere il giudizio ad uno o due superiori del valutante oppure eseguire una valutazione collegiale. Applicando il calcolo delle probabilità, la possibilità di errore si riduce grandemente.
- •Chi garantisce il diritto ai capaci e meritevoli di raggiungere i gradi più alti degli studi? E qui la palla passa in mano ai politici (organi legislativi ed esecutivo) a cui compete la risposta.
L’obiettivo di fondo, (chissà quando raggiungibile), è di garantire a tutti i giovani le medesime condizioni di partenza, per affrontare nel migliore dei modi un percorso che comunque deve essere selettivo.
Certamente si può e si deve fornire la migliore educazione possibile nella scuola dell’obbligo, ma ad ogni modo, un giovane che ha avuto la sorte di nascere e crescere in una famiglia in cui si parla e si discute regolarmente in italiano anziché dialetto, in cui entrano libri, giornali, internet e simili risulta senz’altro avvantaggiato. E qui occorre ingigantire il ruolo della scuola dell’obbligo e delle altre strutture educative per cercare di ridurre il gap.
D’altra parte, sotto un’altra angolazione, non è certo una colpa essere figlio di decenti natali…. il punto è che i “magnanimi lombi” non siano un onnipotente lasciapassare per la carriera, superando ogni altra valutazione sul merito...
Forse, nonostante il tentativo di aggiustare il tiro, le conclusioni di Young, non sono tanto distanti da quelle dei tecnicacci…
Intanto, in attesa di una risposta più soddisfacente, ci ritiriamo per deliberare.
P.S. Saremo dotati di un Q.I. degno per farlo?
Enrico Malusardi, Susanna Ciminà
Riferimenti
[Enciclopedia Treccani, Dizionario di economia e Finanza Stefano Zamagni; Repubblica 12-12 2014 Roberto Esposi
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