Era il 1964. Studente universitario a Roma, fui incaricato dalla Direzione Nazionale Giovanile del mio partito, di cui facevo parte, di una particolare missione: andare a sostenere con una serie di comizi la candidatura al consiglio provinciale di Potenza, nel collegio di Venosa, di un esponente di spicco della politica nazionale, imprenditore locale. Rimasi in Lucania per una settimana e feci diversi comizi, in vari centri: Venosa, Rionero in Volture, Palazzo San Gervasio. Un giorno fui accompagnato in un paese per un comizio da un sodale del candidato che sostenevo, come avveniva di consueto, ma mi trovai ai piedi di un palco in una piazza completamente vuota.
Pensai che, data l’assenza di pubblico, il comizio sarebbe saltato. Ma chi accompagnava mi invitò a salire sul palco, di mettermi davanti al microfono, e di cominciare pure il mio comizio. Feci presente che non c’era nessuno ad ascoltare. Con mia grande sorpresa mi sentii dire: “Qui è sempre così. In piazza non c’è mai nessuno. Ma stanno tutti ad ascoltare dietro le finestre”. Rimasi allibito, salii sul palco e parlai per quasi un’ora, in un clima surreale, ad una piazza vuota.
Ho ripensato a questo antico episodio della mia vita in queste ultime settimane, dopo una serie di riflessioni svolte su questa rubrica riguardo alla miserevole condizione politica, sociale, culturale di Teramo e dei teramani, riflessioni non prive di qualche provocazione, ma o finite contro un muro di gomma o perse nel vuoto, senza suscitare alcuna reazione pubblica o esplicita, né di sdegno né di partecipazione.
Per strada, però, circolando tra la gente, ho ascoltato diverse dichiarazioni private, di persona, o di accordo e sostegno o di partecipazione e solidarietà, che mi hanno trasmesso la sensazione che le mie parole fossero state lette stando “dietro le finestre”, così come vennero ascoltate nel 1964 in quel paese della Lucania le parole del mio comizio. Le cifre incredibilmente grandi riferitemi dal gestore del blog in relazione alle letture della mia rubrica hanno rafforzato in me questa sensazione.
Mi sono chiesto come mai a Teramo tanti preferissero non pronunciarsi e non esporsi, né per assentire né per dissentire da quello che venivo scrivendo, ma rimanere a leggere stando “dietro le finestre”. Poi l’ultimo scritto, contenente la mia proposta di formulare un manifesto degli intellettuali e degli operatori culturali teramani, è stato salutato dall’apertura di qualche finestra, ma solo dopo che da una, un bel balcone fiorito, si era affacciata Rossella Natali, desiderosa di far conoscere il suo parere, non privo di qualche “distinguo”.
Le finestre che si sono aperte dopo questa prima “affacciata” non sono state molte, e più di una ad opera di qualcuno che ha pensato bene di nascondersi però il volto, per non farsi riconoscere, preferendo far conoscere il suo pensiero nascosto dall’anonimato.
Qualche altra finestra è stata aperta in modo intelligente, nel tentativo di proseguire il confronto o di dar vita ad un dibattito sull’argomento in questione, il rapporto tra Teramo e la cultura.
Qualche altra però è stata aperta, pur senza nascondere il volto, con l’evidente intento di vuotare in strada il vaso da notte, come si faceva durante il Medioevo, quando nelle case non c’erano ancora i cessi.
Questo ha fatto sì che l’eventuale proficuo confronto delle idee è stato sviato, trasportato su livelli sui quali non mi è gradevole condurlo. Tanto è vero che non intendo richiamare alcuna argomentazione né abbozzare alcuna risposta. Preferisco solo aggiungere alcune considerazioni, personali e mie, a quelle già svolte nel mio intervento iniziale, retrocedendo da un proposito che per qualche tempo mi ha indotto a interrompere questa rubrica e a rinunciare al mio tentativo di continuare a cercare di “corrodere” per la totale mancanza di un residuo metallo da corrodere (né oro, né argento, né rame, né metalli meno nobili, quali ferro o stagno e per la esclusiva presenza di materiali del tutto inconsistenti).
Intellettuali o operatori culturali che siano, i teramani, quelli che non sono proprio la massa amorfa che non ha altra incombenza che passare il tempo senza far nulla e senza alcuna aspirazione o curiosità spirituale, ma con esigenze solo materiali, si mostrano sempre solipsistici, autoreferenziali, sempre pronti a far le pulci agli altri e a coltivare l’orticello della propria associazione, a riverire i potenti e ad elemosinare contributi e attenzioni. Ognuno ritiene di essere più titolato degli altri e di avere cose più interessanti da dire. Ognuno ritiene che l’altro non abbia titoli sufficienti per sedere alla sua stessa tavola. Quando sotto i portici, davanti ad un libreria che poi ha lasciato posto ad un caffé, non letterario, sistemammo un tavolo, che chiamammo “Tavolo della Sapienza”, con quattro sedie, mettemmo un cartello: “Sii sempre pronto a cedere la sedia a chi ritieni sia più sapiente di te”. A Teramo pochi sono disposti a fare proprio questo motto.
Quasi tutti sono pronti a contare le volte in cui ti “fai vedere” ad una mostra (organizzata da loro), ad un concerto (organizzato da loro), ad uno spettacolo teatrale (organizzato da loro), in una libreria (dove, a volte, vanno loro), alla presentazione di un libro (loro o di qualche amico) o ad un evento culturale (organizzato però da loro o dai loro amici).
Pochi sono autentici in questo amore per la cultura e per l’arte, nelle sue varie forme e nei suoi vari generi. Pochi sono disposti a provare vergogna, come l’ho provata io l’altra sera, quando al Teatro Comunale ho ascoltato un concerto, rattrappito sulla poltrona, mezzo sfondata, a troppo stretto gomito dei miei vicini, e senza poter ascoltare quello che dicevano la presentatrice e il direttore d’orchestra per la mancanza dell’impianto di amplificazione.
Poca gente vedo nelle librerie dove io passo ore, anche per amicizia con i librai. Nei locali cinematografici vado poco perché il pubblico mi infastidisce con le sue chiacchiere e i film non sono di prima visione. Ai concerti e a teatro, quando vado, continuo a vedere un pubblico meno interessato al palcoscenico che allo sfoggio delle proprie eleganti toilettes. Alle presentazioni di libri vedo sempre e solo gli amici degli amici (a meno che la sala non sia stata riempita da un richiamo di appartenenza ad una “comune fratellanza”) o la presenza di agenti di polizia in tenuta antisommossa perché ciò di cui si parla non è gradito a qualcuno, che manifesta il proprio “anti”. In biblioteca continuo a vedere una massa di frequentatori composta sempre più da lettori di quotidiani e da studenti con il libro davanti, ma con in mano l’immancabile smartphone su cui smanettare in continuazione. In alcune sale espositive posso apprezzare solo opere scelte da chi si è visto affidato il potere di gestirle e quindi di decidere chi e quando deve esporre; in altre si registra una riduzione di spazi, perché il sindaco ha deciso di destinarne una parte ad altro uso, non artistico o culturale; in altre ancora sento dire che quella mostra non ci sta bene perché l’artista non è all’altezza.
Intanto continuo a dover lamentare una mancanza di un dibattito autentico, di crescita collettiva della cittadinanza, un disinteresse completo degli amministratori e un interesse rivolto solo ad iniziative di nessuna valenza culturale. Continua il degrado, manca la partecipazione, progredisce la desertificazione e arretra la cultura. I più non si arrischiano ad esprimere il proprio pensiero e chi lo fa si nasconde dietro l’anonimo. Tutti gli altri se ne stanno in silenzio, nascosti “dietro le finestre”.
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