L’art. 48 della Costituzione Italia stabilisce che il voto è personale, eguale, libero e segreto e aggiunge che è un dovere civico. Quindi il voto è un dovere oltre che un diritto. Ma la conquista del diritto di voto è storicamente piuttosto recente, oltre che faticosa. In Europa arriva con la Rivoluzione francese, nel 1792, ma per breve periodo, solo nel 1848 diventa in Francia definitivo per gli uomini, e dal 1946 per le donne, in Italia diritto di voto diventa universale per gli uomini nel 1912 e solo nel 1945 per le donne. E prima? Prima il voto non era né un dovere né un diritto. Diventato un diritto-dovere, il voto divento anche un obbligo, e ne fu sanzionato il mancato esercizio, vale a dire il non-voto.
Chi non votava alla Camera si vedeva sanzionato, in difetto di giustificazione, con l’annotazione “non ha votato” sul certificato penale, prevista dal d. p. r. 361/57 fino a quando questo non fu abrogato con la legge 534/93, come se votare fosse anche un dovere penale e non solo morale o civico, come è restato una volta de-sanzionato il mancato esercizio del voto.
Ho sempre pensato che votare fosse un diritto e non anche un dovere e che fosse maliziosa e capziosa quell’argomentazione con la quale si vorrebbe convincere i riottosi al voto a votare, che consiste nell’affermare che essendo stata faticosa la conquista del diritto di voto non è bene vanificarla non esercitandolo e così rendere inutile il sacrificio di chi ha tanto combattuto per ottenerlo.
Ho sempre pensato, al contrario, che il voto, essendo solo un diritto, possa essere esercitato o no e che sia perfettamente legittimo non esercitarlo, così come è legittimo rinunciare ad esercitare un qualsiasi diritto. Il voto è l’espressione di un parere, di un giudizio, e quindi deve essere basato sulla convinzione. Se si è convinti di un parere, lo si dà, altrimenti ci si astiene. Se si è convinti di un giudizio su una qualsiasi realtà o su una qualsiasi persona, e quindi anche su una lista di candidati o su un singolo candidato, lo si esprime, altrimenti ci si astiene. Le posizioni possibili quando ci si trova ad esprimere un giudizio sono non due, ma tre: assenso, dissenso ed epochè.
Quest’ultima consiste in una "sospensione del giudizio", teorizzata in modo sistematico e esauriente per la prima volta nell'antica Grecia, in particolare da due grandi correnti di pensiero: l’”accademia media” platonica (attiva dal III secolo a.C. al I secolo a.C.) e un gruppo di filosofi detti neo-pirroniani (o "veri scettici") (attivi fra il I e II secolo d.C.). Secondo il filosofo Cartesio sospendere il giudizio quando si ritiene di non avere sufficienti elementi di convinzione per esprimerlo è addirittura un dovere. La “sospensione del giudizio”, che i filosofi hanno chiamato in causa con valenza teorica e teoretica, vale secondo me anche sul piano politico, estendendosi quindi anche al giudizio politico.
Quando tra vari candidati o tra varie liste politiche non ravviso elementi certi e probanti in grado di convincermi della bontà di una scelta, ritengo che sia addirittura un dovere non scegliere, sospendere il giudizio politico e quindi non votare. D’altro canto anche il non scegliere è una scelta e quindi anche il non votare è un votare. Si vota il non-voto, senza che sussista alcun elemento di contraddizione.
Se sul piano filosofico la “sospensione del giudizio” è un processo cognitivo, implicato nella formazione di giudizi etici e morali, il suo contrario, “il pregiudizio”, consiste in un giudizio formulato pur in assenza di ragioni oggettive e che viene espresso ugualmente anche senza particolare convinzione.
Sul piano politico quest’ultimo coincide con il voto espresso per “partito preso”, cioè anche accordato alla lista e al candidato che un partito di riferimento, al quale “acriticamente” si aderisce, ci propone. Sul piano teoretico e filosofico il pregiudizio conduce a trarre conclusioni o a formulare giudizi in assenza di un numero sufficiente di informazioni, e la sospensione del giudizio impone di astenersi da simili atti fino al raggiungimento della necessaria quantità di informazione. Sul piano politico il primo coincide con il voto dato per spirito di parte ad un candidato che pure non stimiamo a sufficienza, la seconda sul non-voto, motivato dall’assenza di un candidato che non ci convince pienamente.
Con l’aumento del numero degli astensionisti, tanto da essere ormai diventati maggioranza e, in un certo senso, “primo partito”, è aumentato anche il numero dei loro antagonisti, convinti che il voto sia un dovere e che lo si debba esprimere lo stesso, magari “turandosi il naso”. Oltre ad ammonire, da farisei, che “se non si va a votare oggi, non si avrà il diritto di lamentarsi domani”, costoro sono sempre pronti ad accusare chi non va a votare di “qualunquismo”, come se fosse questa la colpa più grave e non il rubare, da politici eletti, soldi pubblici. Sono anche sempre pronti a dire che non è vero che tutti i partiti e tutti i candidati sono sempre uguali, che si può sempre scegliere il partito o il candidato più vicino (o meno lontano) dalle nostre idee, il candidato più presentabile, o il meno impresentabile.
Queste sono argomentazioni speciose, di poca consistenza e poco convincenti. Per parte mia, non sono semplicemente, dal 1995, un “riottoso” al voto, ma addirittura un “renitente” al voto. Il termine “renitente” è più forte del termine “riluttante”. Qualifica l’atteggiamento, e quindi la scelta, di chi si oppone alla volontà altrui, il secondo qualifica l’atteggiamento di chi, mal adattandosi al volere altrui, è restio ed esitante. Ma io non sono titubante, sono anzi molto deciso, a non votare. Sono, per usare un’altra espressione assai nota, “un obiettore di coscienza” del voto. Non voto con lo stesso atteggiamento, deciso e convinto, di chi oppone il rifiuto ad un dovere imposto, pensando che invece un’accettazione comporterebbe conseguenze negative e contrarie alle mie convinzioni ideologiche e politiche.
Non esiste più l’obbligo di leva e non esiste più l’obbligo di voto. Non esiste più il reato di renitenza alla leva, non è un reato la renitenza al voto. Non è nemmeno un peccato. E quando qualcosa andrà male nell’azione di chi governerà, nessuno potrà venire da me a rimproverarmi di non aver votato e quindi di aver contribuito a determinarla. Anzi, avrò il pieno diritto di ricordare di non essere minimamente coinvolto nelle eventuali scellerate scelte compiute, che non saranno state individuate ed attuate “nel mio nome”. Quando non voto, è come se dicessi a ciascuno dei candidati non votati: “Non nel mio nome. Quello che farete o non farete, non lo farete o lo farete nel mio nome”.
Alla “voluntas” di chi farà o mal-farà io oppongo la mia “noluntas”, come atteggiamento politico attivo e non passivo. D’altro canto, come ricordava Pitagora, la vita (e quindi, aggiungo io, anche la politica) è come una competizione olimpica: alcuni vanno per partecipare alle gare, altri per fare il tifo a questo o a quel competitore, altri ancora semplicemente per assistere. Io sono tra questi ultimi.
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