Tutto è cominciato pochi giorni fa, quando ho letto un post su Facebook della giornalista Elisabetta Di Carlo, che stimo e con cui ho lavorato tantissimi anni fa. E’ cominciato in me, nella mia mente, dove continuo a nutrire sogni, a seppellirne altri, a “fucinare” idee riguardo a questa città (Teramo) che amo, ma di cui disprezzo molti abitanti (teramani), per la loro apatia, la loro indolenza, la loro indifferenza, la loro poltroneria, la loro…. Basta mi fermo. Dunque, Elisabetta Di Carlo postava: “Teramo è finita”. E perché? Elisabetta lo spiegava così: “”Non si riesce a comperare un cornetto alle 7 del mattino”.
E perché non si poteva (non si può)? Perché, evidentemente, non sono ancora aperti i bar, le cornetterie, le pasticcerie ed esercizi affini. Io non lo so se alle 7 del mattino sia possibile comperare cornetti e trovare cornetterie aperte, perché, essendo una civetta e non un’allodola, non mi alzo prima di una certa ora. Quando lo faccio… lo faccio in rare occasioni, magari costretto ad una “levataccia” per un’analisi del sangue, e allora, dopo il digiuno, entro in un bar per un cornetto. Mi fido di Elisabetta, e se lei dice che alle 7… Ma nella mia mente il suo annuncio-lamentela l’ho preso come una metafora, un’altra, della vita in questa nostra amata-odiata Teramo, dove tutto è sempre così controverso.
Molti commenti al post danno ragione all’autrice e propongono altre lagnanze, condividendo l’idea che Teramo “è finita”. Alcuni si arrischiano a dire che è ora di cambiarla questa città, che ci si deve rimboccare le maniche, che bisogna unirsi…, voltare pagina. Queste proposte di cambiamento risultano ridicole e comiche, pensando che sono passati pochissimi giorni da una possibilità di cambiamento, le elezioni, che Teramo e i teramani non hanno sfruttato.
Quindi ogni bellicosa proposta di cambiare il corso degli eventi e il declino di una città, appare vacua.
I commenti sono disparati: c’è chi sostiene che Teramo è finita, ma è finita da molto tempo; c’è chi invita, pur confermando che è finita, a pensare a problemi più seri e a indizi maggiormente significativi di questa fine; c’è chi spiega il declino in altro modo; cìè chi fa esempi di diverso segno sul degrado cittadino. Insomma, si è aperto quasi un dibattito, come sempre su Facebook alquanto asfittico, perché sui social network a postare e a commentare sono poi, in definitiva, quasi sempre gli stessi e si amplifica troppo la portata della piattaforma di discussioni.
Nella mia mente, che per ragioni di deformazione professionale non riesce a leggere il presente o a pensare il futuro senza uno sguardo rivolto (anche) al passato, mi si è ripresentata un’ampia discussione che ci fu a Teramo sulla stampa locale nei lontani anni ’50 del secolo scorso riguardo ad un provocatorio interrogativo: Teramo era una “città morta”. Il quotidiano Il Tempo già il 24 luglio 1954 aveva scritto che la decadenza del teramano era dovuta alla pigrizia e alla disoccupazione. Tre anni dopo, il 27 dicembre 1957, scriveva che non c’era speranza per le nuove generazioni di teramani. Due anni dopo, nel marzo 1959, cominciò a pubblicare una serie di articoli in cui sosteneva che Teramo era “una città morta”. Il Messaggero rispose con una serie di articoli, per lo più ispirati dagli amministratori e dai politici, in cui rintuzzava la tesi e portava molte considerazioni di segno contrario.
La discussione fu lunga e partecipata. Il sindaco Carino Gambacorta dichiarò che quella de Il Tempo era una campagna denigratoria, che la città era “fiorente” e che era ingiusto cantarle il “de profundis”. Mentre Il Tempo continuò a portare molti elementi a favore della propria tesi, Il Messaggero ne portò altri, quasi tutti suggeriti, oltre che dal sindaco, da amministratori di enti pubblici e da rappresentanti di categoria. “Teramo è quanto mai viva, com’è dimostrato dal suo rapido e continuo sviluppo edilizio” dichiarava il sindaco Gambacorta. “Notevoli gli investimenti pubblici, non altrettanto notevoli quelli privati, fatta eccezione di pochissimi casi, assai lodevoli in verità, ma troppo pochi per un comune che ha superato di molto i 40.000 abitanti. Chi ha mezzi e buon ingegno o li spende ed impiega altrove, o da ‘benpensante’ se li tiene per sé, per nulla curandosi del pubblico interesse e del bene comune. Tuttavia, malgrado la natura della sua economia e della sua posizione geografica, Teramo va registrando indici sempre più elevati di progresso economico, sociale e culturale, per l’alacrità dei suoi lavoratori e per il contributo di pensiero e di acume di coloro che per essa operano con lo sguardo proteso verso un miglior avvenire di città. “ (Il Messaggero 5 aprile 1959)
“Sinceramente quindi non capisco” dichiarava il presidente della Camera di Commercio, Alberto Tommolini “perché sui giornali dobbiamo proprio gettarci giù. Che la vita a Teramo progredisce, che c’è movimento, che non esiste remora allo sviluppo io l’avverto in ogni manifestazione, anche la più insignificante. Vengono chieste sempre nuove licenze per esercizi pubblici.” Le cancellazioni all’anagrafe della Camera di Commercio, precisava Tommolini, erano inferiori ogni mese alle nuove iscrizioni, si registrava un risveglio dell’artigianato grazie ai provvedimenti governativi e presto anche il problema turistico avrebbe trovato una soluzione con la costruzione di un albergo ai Prati di Tivo, località la cui valorizzazione avrebbe fatto di Teramo l’anello di nazionale.
Un anonimo pensionato, intervento nel dibattito, dichiarava: “Dire che Teramo è una città morta è un sacrilegio ed io, come fanno certamente tutti i teramani che si sentono di esser tali di nascita e di elezione, mi congratulo con il sindaco Gambacorta per essere insorto con energia e senza mezzi termini contro certe pericolose definizioni.”
Mentre Il Messaggero continuava la sua controinchiesta, finalizzata a dimostrare che Teramo non era una “città morta”, Il Tempo proseguiva la sua, tesa a dimostrare l’esatto contrario, riportando molte argomentazioni e molte dichiarazioni di cittadini, oltre che molti esempi. Respingeva anche l’accusa di voler denigrare la città e i suoi abitanti. L’inchiesta condotta dal giornale, scriveva Francesco Campanella, aveva suscitato una stizzita reazione delle autorità, ma il giornale aveva registrato una maggioranza di risposte positive dei cittadini alla domanda se Teramo fosse una città morta. Il metodo utilizzato, a campione, era ovvio che prestasse il fianco ad accuse di “difetti e deficienze”. Non per questo il risultato poteva essere sottovalutato. Tenendo però conto che al termine “morta” non bisognava attribuire il significato letterale.
Bisognava intenderlo come “stato di apatia, di sonnolenza, di assenza d’iniziative d’ogni genere”. E quindi, inteso così il termine, i cittadini avevano pienamente ragione a lamentarsi. Tra le carenze, l’autore dell’articolo lamentava quella di una vera stazione di autolinee in una città in cui il movimento viaggiatori si realizzava prevalentemente per mezzo di autolinee, quella di un nuovo piano regolatore, quella di una sala per conferenze o per concerti dall’acustica almeno decente. La vita intellettuale languiva del tutto, si proseguiva con la politica dei “sorrisetti ipocriti” e del far finta che tutto andasse bene. Teramo non solo era una città morta, ma era stata anche seppellita e addirittura, per punizione, era finita all’inferno.
Mercoledì 29 aprile 1958 Il Tempo dava una notizia scrivendo che essa confermava come la vita intellettuale teramana languisse. La Direzione Generale dello Spettacolo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva disposto il programma per la realizzazione dei “Festival della prosa” nell’Italia meridionale. Ebbene, in Abruzzo i festival si sarebbero svolti all’Aquila, Sulmona e Pescara, Teramo era stata esclusa. Evidentemente, il pubblico teramano non veniva considerato amante del teatro di prosa. Erano i finiti i tempi nei quali si parlava di “Teramo la dotta”.
Giovedì 30 aprile 1959 Il Messaggero riportava che il ministro della Cassa del Mezzogiorno, on. Giulio Pastore, nel corso della sua visita in città, aveva dichiarato: “Teramo mi ha offerto lo spettacolo di una città piena di vita”. Era un’ulteriore risposta polemica a chi sosteneva che invece i teramani vivessero in una città morta. L’on. democristiano Tommaso Sorgi, nel corso di un convegno tenuto nell’Aula Magna del Convitto Nazionale proprio in occasione della visita del Ministro Pastore, aveva detto: “Tanti sono i problemi che ci allarmano, non perché non ci siamo mossi, non perché Teramo sia una città morta, come in questi giorni sui giornali si è andato polemizzando, perché abbiamo sì delle depressioni di carattere costituzionale nella nostra economia, ma abbiamo dimostrato in quasi tutti i settori tanta e poi tanta vitalità, come il Ministro ha potuto constatare ieri nella sua visita”.
Dunque, Teramo è finita, come sostiene la Di Carlo e chi le dà ragione? Ma quando è finita? Era già finita negli anni ’50 del secolo scorso? O è finita dopo? Se è una “città morta”, quando è morta davvero? Era già morta negli anni ’50, come sosteneva Il Tempo, o è morta dopo? Un fatto è certo: soprattutto d’estate, finita la Coppa Interamnia (e spero che non muoia anche quella) morta lo sembra davvero: non solo non si riesce a comperare un cornetto alle 7 del mattino, ma non si aprono i negozi prima di una certa ora, non gira nessuno per le strade, i negozi sono vuoti, per non parlare delle librerie, molti esercizi pubblici sono chiusi e sono chiusi per sempre anche molti di quelli privati.
Troppi negozianti si lamentano della crisi e delle poche vendite, ma tengono chiusi il più possibile i loro negozi. In qualche gazebo e davanti a qualche bar si tira un po’ tardi bevendo e sgranocchiando antipasti, ma questo i teramani (sempre gli stessi, però) continueranno a farlo sempre, anche in una città morta e anche all’inferno, dove prima o poi finiranno, se non ci sono già finiti.
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