Gli antichi romani usavano uno strumento fatto di fibbie di cuoio, con degli artigli metallici, ossa di pecora o palline di piombo alle estremità, con il quale veniva fustigato un condannato ad una specifica pena, che assai di rado sopravviveva dopo la punizione, davvero terribile, in quanto le sue carni venivano lacerate in profondità. Lo strumento veniva chiamato "gatto a nove code", in quanto le fibbie di cuoio, i lacci, erano nove. Questo genere di punizione venne in seguito usato sulle navi della marina reale e nell'esercito del Regno Unito. Rimase in vigore a lungo, bandito solo negli anni successivi al secondo conflitto mondiale.
Lo strumento di punizione che sarà usato, invece, sul povero rieletto sindaco di Teramo, Maurizio Brucchi, mettendone in pericolo la sopravvivenza, è anch’esso a nove code, ma lo si dovrà chiamare “Gatti a nove code”, considerato chi lo userà per fustigarlo e dato il numero degli assessori, appunto nove, che potrebbe essere costretto a nominare per poter varare la sua giunta dopo che, per essere rieletto, ha dovuto affidarsi a ben sei liste di candidati. Gli assessori saranno tre di più del numero delle liste, perché, anche se dovesse essere rispettata, nella spartizione assessorile, la proporzione di un assessore per ciascuna lista, bisognerà tener conto delle eccedenze necessarie per far quadrare i conti di una maggioranza che si è rivelata subito rissosa.
Nei pollai dove ci sono troppi galli non si fa mai giorno, e nelle giunte dove ci sono troppi assessori non è mai il sindaco che decide. Nel caso di Brucchi, poi, il nostro sa bene che lui ha vinto come vinse Pirro e che a vincere come vinceva Cesare è stato Gatti e sarà Gatti a dettare le regole del gioco, oltre che quelle dell’uso della frusta, a nove code, o a nove assessori.
Nove, come nella prove del nove, che Brucchi dovrà superare e non è detto che ci riesca.
Nove come i giorni consecutivi nei quali la devozione cristiana prescrive di pregare per avere una novena, una delle tante che lo stesso Brucchi dovrà recitare per campare giorno per giorno con i pochi soldi che si ritrova nelle casse comunali, tanto che ha già dimenticato le promesse elettorali e ha annunciato ai teramani lacrime e sangue, un programma amministrativo del quale in campagna elettorale non aveva parlato e si era guardato bene dal parlare.
La poltrona da sindaco di Brucchi per stare in piedi ha bisogno di nove piedi, non gliene bastano tre e nemmeno cinque. Altrimenti potrebbe traballare. Pare poi che il rieletto sindaco nominerà un assessore alla spending review, il quale come primo atto non potrà che constatare che senza di lui già si risparmierebbe un bel po’ sulla spesa e, per essere coerente, dovrebbe o dimettersi subito o caldeggiare il ritiro della sua delega. Le proposte dell’opposizione sono state subito molte e alternative: si è andati dalla proposta di nominare soltanto cinque assessori (Manola Di Pasquale del PD), a quella di nominarne nove ma di pagarli la metà (Maria Cristina Marroni della Lista Pomante), a quella di nominarli in base ai curricula anziché secondo le consuete ed inaccettabili logiche spartitorie elettorali. (i due consiglieri grillini).
Il primo nodo gordiano di Brucchi è il numero degli assessori. Se fosse per lui, arriverebbe anche a dodici, ma poi avrebbe paura di un Giuda, la cui presenza probabilistica, come è stato dimostrato è, appunto, di uno su dodici. Arrivare a dieci sarebbe pure possibile, anche per dare pari opportunità di genere, ma poi qualcuno potrebbe sfidare lui e la sua giunta ad una partita di calcio, attratto dal numero undici, che è quello di un team calcistico.
Numeri a parte, Brucchi sfoglia la margherita (si fa per dire), ma sempre sotto l’assillo dell’incombente Gatti, perché è Gatti che distribuisce le carte, poker o ramino che sia il gioco, nel quale Brucchi sarà sempre perdente, perché dovrà solo ubbidire e non potrà mai comandare. Uno a te, uno a te, uno a me, tanti baci amor… ricordate la canzone di Dalida? Non sappiamo se la spartizione dei pani e dei pesci sarà indolore o se avrà qualche strascico polemico, con qualche dolore di pancia di qualcuno che si sarà visto escluso o penalizzato o non sarà fatto salire a bordo della zattera, ma ricacciato con un colpo di remo tra le onde. Sappiamo però che gli assessori che scalpitano non sono certamente il meglio di quanto la città di Teramo potrebbe esprimere, sia pure in un momento così particolare della sua decadenza senza fine.
Certo, a Teramo ne abbiamo avuto di peggiori, ma anche di migliori, quindi qualche speranza c’era. Invece… siamo qui ad aspettarci delle minestre riscaldate, che già quando erano appena cotte erano immangiabili, e qualche nuova minestrina senza sale e perciò insipida, a cui nemmeno una spessa coltre di formaggio pecorino potrà dare un qualche sapore. Non pochi degli assessori, vecchi e nuovi, sono gattiani, o gatteschi, a seconda delle definizione che preferite, o “micetti”, come li chiama Romanelli, il quale però nonostante il successo elettorale, potrebbe rimanere senza uno scranno e doversi accontentare di un ruolo da presidente del consiglio, che, conoscendo l’attivismo del soggetto, sarebbe per lui prestigioso ma deludente.
Certo è che gli assessori qualificano una giunta come nessuna cosa, e quelli “brucchiani” o “brucchini” (a seconda della definizione che preferite) c’è il pericolo che la squalifichino invece di qualificarla, almeno quanto a insuccessi acquisiti e demeriti accumulati (sempre sul piano politico ed amministrativo, perché sul piano personale sono persone squisite, tutte, nessuno escluso).
Le scelte che dovranno compiere, o accettare dopo che le avrà compiute Gatti, sono molte e tutte decisive per Teramo, almeno nel tentativo di salvare il salvabile e non far deperire ciò che ancora (assai poco, ma sempre troppo) può deperire e danneggiare quel che ancora può essere danneggiato.
Le frazioni continueranno a fare aggio sul capoluogo, dove l’apatia è così tanta che molti nemmeno hanno fatto caso al fatto che si votava per rinnovare sindaco e giunta. L’urbanesimo ha portato a Teramo dai principi del novecento tanta di quella gente che ormai li “cachimpìte”, come venivano chiamati i teramani secolari, quelli veri, quasi tutti di Porta Romana (tanto che venivano chiamati pure “li portarumìne”) non ce ne sono più ed è naturale che ad amministrare Teramo sia le gente del contado (come avviene da decenni).
Il termine “cachimpìte” derivava ai residenti di Porta Romana, e per estensione ai teramani autentici, dal fatto che le loro case erano così strette che i cessi erano ancora più stretti e quindi bisognava fare i bisogni quasi stando in piedi sulle tazze, non comodamente accoccolati come avveniva in campagna, all’aria aperta.
Lo sviluppo edilizio e la cementificazione, portati dall’urbanizzazione delle residenze, hanno fatto sì che oggi i cessi dei residenti nel capoluogo non siano più così stretti, sono dei veri e propri bagni, anche doppi e tripli, e questa accresciuta comodità li ha resi così contenti e soddisfatti dall’essere disinteressati a qualunque altra cosa, a chi è sindaco e a chi non lo è, a chi è assessore e a chi non lo, e anche al fatto che gli assessori siano tre, cinque o nove, se siano pagati a prezzo intero o a metà prezzo, come nei saldi di fine stagione.
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