La fotografia che correda questo scritto, pubblicata su “Il Messaggero” di martedì 1° dicembre 1959 ha una forza evocativa e drammatica grandissima.
Che sia drammatica, lo percepiamo solo oggi. Ieri, allora, quando fu scattata, la drammaticità non c’era.
Né in chi usava il piccone né in chi lo vedeva usare. La didascalia è chiarificatrice del momento vissuto nell’atto di sferrare il primo colpo di piccone al Teatro Comunale di Teramo per iniziare l’opera di demolizione.
Al suo posto sarebbe stato costruito un nuovo edificio, con a piano terra la filiale dei Grandi Magazzini Standa, con l’ingresso che si sarebbe affacciato su Corso San Giorgio, e al piano superiore il nuovo Cine Teatro Comunale, con ingresso sul retro.
Il sorriso stampato sul volto del picconatore, il sindaco del tempo prof. Carino Gambacorta, rivela la soddisfazione per avere finalmente posto la parola fine ad una lunga e tormentata vicenda, una lunga polemica definita “ridicola” nella didascalia, sul tema dell’abbattimento e della ricostruzione.
La “fatidica cerimonia” della picconatura, precisa la stessa didascalia, era avvenuta alla presenza del ministro Spataro, ma “quasi alla chetichella”, ma non per questo meno significativa.
Lo era per tutti, meno per quei “pochi” che non sarebbero riusciti a mandare giù l’avvenimento e avrebbero voluto, “per non turbare i loro affari”, far rimanere Teramo “un ammasso di vecchiume”.
La foto, a considerarla oggi, è agghiacciante. E frutto dell’ironia della storia il fatto che a imbracciare quel piccone fosse non un politicante da strapazzo, ma un intellettuale, che aveva scritto libri di storia vantando le glorie e le antichità del teramano.
Un raffinato pensatore che avrebbe avuto più di tutti il dovere, perché ne aveva le capacità, di comprendere. E, invece, non comprese. Ma quel piccone lo imbracciarono tutti i teramani.
Lo imbracciammo tutti: chi decise, chi concordò, chi non si oppose, chi non si oppose abbastanza. “Solo il piccone può risolvere il problema del Comunale” aveva titolato un suo articolo Il Messaggero martedì 16 dicembre 1958. E con il piccone il problema venne “risolto”, dando il primo colpo al teatro e avviando i lavori di demolizione. "Il teatro era antigienico e inadatto a poter ospitare il pubblico di una città", si leggeva nel sommario.
Le sedie erano sgangherate e i pavimenti sconnessi, vi scorrazzavano legioni di topi. Nessun giornale ricordò da quanto tempo non si effettuavano lavori di manutenzione. Anzi, ci si lamentò che il locale fosse stato momentaneamente riaperto e fossero riprese le proiezioni cinematografiche.
Veniva invitato il questore, che tanto si interessava delle cose cittadine, ad intervenire e ad adottare quei provvedimenti idonei a scongiurare ad un pubblico bene educato il rischio di molti inconvenienti: latrine maleodoranti, pavimento di legno insicuro, sedie sgangherate, uscite di sicurezza non funzionanti, topi in libertà.
Per di più si registrava un pericoloso sovraffollamento festivo. C’era anche un problema di moralità pubblica.
Giorni prima in uno dei palchi, che sembravano fatti apposta per ospitare coppie clandestine, la questura aveva sorpreso un uomo e una donna in atteggiamenti illeciti e li aveva portati negli uffici della polizia. “E’ questo un altro motivo” scriveva Il Messaggero “che gioca a favore della chiusura: il nostro teatro comunale nella sua attuale veste e disposizione di posti va assolutamente sostituito con altro più moderno, che, aboliti i palchi, disponga di galleria e platea ariose e luminose”.
Era il progresso moderno ad imporre lo sforzo all’amministrazione comunale, la quale aveva il compito di parlare chiaro agli amministrati e di mantenere fede alle promesse fatte, tenendo chiuso “un teatro dichiarato pubblicamente fuori uso, un vero obbrobrio, per non dire di più, facendo tacere le più ignobili maldicenze che in mano avversaria finiscono col trasformarsi in pericolose e basse speculazioni politiche”.
A leggere oggi queste frasi, non si può non rabbrividire. D’accordo, non si può essere antistorici, anacronistici, si deve inquadrare tutto nel contesto temporale, tener conto che oggi c’è un’altra sensibilità (mica tanto, abbiamo rischiato seriamente di abbattere il campo sportivo comunale con argomentazioni analoghe a quelle che giustificarono l’abbattimento del Teatro Comunale), ma leggere che cosa scrisse la stampa dell’epoca fa lo stesso impressione.
Così come fa impressione leggere quanto dichiaravano i cittadini teramani, che furono presi tutti da una frenesia per i grandi magazzini a prezzo fissi e per averli avrebbero fatto qualsiasi cosa e, forse, avrebbero perfino concordato con l’abbattimento del Duomo.
C’era una ansia di modernità, si buttavano i vecchi mobili di legno (che fecero poi la fortuna di alcuni rigattieri) per sostituirli con nuovissimi mobili di formica lucida, si correva a comperare frigoriferi e apparecchi televisivi e tutto ciò che era antico veniva preso per vecchio ed inutile.
Ah, quel primo colpo di piccone, che non fu il solo, perché il piccone fu impiegato più volte, troppe volte, per abbattere e demolire altri edifici, che avrebbero meritato di restare in piedi e che oggi costituirebbero il vanto della nostra città se non fossero stati abbattuti e demoliti.
La stampa teramana preparò il terreno con campagne di stampa che mettevano in risalto il problema dei prezzi troppo alti, la necessità di un calmieramento dei prezzi, la voracità dei commercianti locali, ai quali si rimproverava di badare solo ai loro interessi di bottega e di ostacolare l’arrivo dei magazzini a prezzi fissi che avrebbero fatto loro concorrenza, minacciando di gettarli sul lastrico.
Ma anche i commercianti dichiararono di essere favorevoli, anche loro presi dall’ansia del nuovo e molti dissero che l’arrivo della Standa avrebbe richiamato consumatori dei paesi limitrofi e quindi ne avrebbero tratto vantaggi anche loro.
Solo i cartolibrai di dissero contrari ed era la categoria che per generi merceologici aveva invece meno da temere.
Tutti gli altri, teramani di ogni ceto e di ogni genere, non vedevamo l’ora che la Standa arrivasse e che Teramo finalmente, come diceva una pubblicità che la stessa società milanese fece pubblicare sulla rivista edita dal Comune ancor prima che la filiale fossa aperta, entrasse a far parte del novero delle “principali città d’Italia”.
Ah, quel colpo di piccone!
Quando alla fine il Teatro fu abbattuto e la gente vide quello scatolone quadrato che ne aveva preso il posto, dopo giorni e giorni di ressa davanti all’ingresso della Standa (dovette appostarsi la polizia per disciplinare gli ingressi), qualcuno capì, a poco poco, che era stato commesso un crimine.
Ci fu chi scrisse che era stato costruito un “silos” inguardabile, che il nuovo teatro era stato troppo sacrificato agli interesso della Standa con il suo ingresso nel retro del palazzo. Ma non mancò qualche sedicente critico d’arte che giustificò “il silos”, dicendo che si trattava di un’opera d’arte.
Ah quel piccone!
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