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Il corrosivo: Quelle parole dimenticate…

di Elso Simone Serpentini
5 minuti

Leggere poesie in dialetto teramano nel caffè di un’area di servizio, dove la gente si ferma per breve tempo dopo aver fatto benzina e prima di imboccare l’autostrada, sta diventando per me un’avventura esaltante.
Fatta eccezione per qualche “abituè”, che ci viene apposta, mi diverte vedere qualcuno entrare, rimanere stupito nel vedermi e nel sentirmi leggere versi in dialetto e poi restare incapace di resistere alla tentazione di restare ad ascoltare. Più o meno a bocca aperta, certamente con meraviglia. In un caffè  che  si prende il vezzo di nobilitarsi rinunciando ad una “effe” e diventando “cafè”, proprio per darsi un tono culturale e letterario, leggere versi in dialetto risulta quasi provocatorio. Almeno in assenza di altre iniziative, istituzionali, che si prefiggano l’obiettivo di ricordare i nostri antichi poeti e di salvarli dall’oblio in cui sono caduti. Luigi Brigiotti, Guglielmo Cameli e perfino il più recente Alfonso Sardella dicono sempre meno, o quasi niente, alla maggioranza dei loro concittadini, presi da altre ambasce, forse da altre angosce, o forse ancora da altri entusiasmi. 

Leggendo versi (nell’anglo-italiano imperante si dice “reading”) in dialetto, scruto i volti e gli occhi degli ascoltatori, cerco di cogliere se colgono non solo il significato dei versi ma il senso delle parole, cerco di capire se capiscono alcune parole, di un dialetto antico che nessuno più parla. C’è ancora chi parla il dialetto teramano, nonostante la guerra contro il dialetto condotta da una cattiva scuola da cattivi maestri, ma il vernacolo di oggi non è quello di ieri (Sardella), dell’altro ieri (Cameli) o dell’altro ieri ancora (Brigiotti). Nei loro versi ci sono tante parole non solo desuete – come si dice – ma ormai completamente dimenticate, che nessuno – o pochi – è oggi in grado di capire. Sono parole che andrebbero spiegate, ma a spiegarle la poesia viene sciupata e si interrompe l’emozione della lettura e dell’ascolto, così come un’interruzione pubblicitaria interrompe e sciupa l’emozione di un film. 

E poi capire non sempre serve per “capire”. Occorre sentire e per sentire non serve proprio interpretare. Però quelle parole… penso che quelle parole dimenticate del nostro dialetto soffrano dentro di sé a non sentirsi più evocate, chiamate in causa, usate. Se ne stanno a dormire nel loro giaciglio e non sperano in un risveglio, così, quando nel leggerle le richiamo, esse si ridestano un momento, sorprese, e si chiedono chi e perché le abbia richiamate e sottratte al loro rassegnato sogno. Quelle parole… quante parole dimenticate! Le lingue morte sono quelle che ormai da tempo non si rinnovano più. Vengono definite tali il latino, il greco antico. Il loro vocabolario è fissato da secoli e nessuno più vi ha aggiunto una sola parola. Le lingue vive sono quelle che si rinnovano in continuazione, che nei loro vocabolari vedono ogni giorno aggiungersi nuove parole, o nuove accezioni, nuovi significati, nuovi modi di dire, nuove espressioni. Anche il dialetto è una lingua viva, perché viene usata, rinnovata, modificata, adattata alle necessità del momento. Ma il dialetto ha la particolarità di essere una lingua parlata, non scritta e non letta, così anche chi lo parla non sa scriverlo e non sa leggerlo.

Chi prova a scrivere il dialetto teramano lo stravolge, lo priva di quelle vocali che non si pronunciano ma ci devono stare per evitare di farlo assomigliare al turco o all’ostrogoto.
Chi prova a leggerlo, quando lo trova scritto, incespica ad ogni verso o ad ogni parola, come chi, senza conoscere o conoscendo poco le note musicali, prova a leggere uno spartito o a eseguire un brano musicale con un qualsiasi strumento, a corda, a fiato, o a tasti.

Quelle parole dialettali desuete, dimenticate, incomprese… scritte male e lette peggio perché non immediatamente riconoscibili anche se conosciute ed usate quotidianamente… Quelle parole così immediate, autentiche, dirette, espressive, molto di più delle parole della lingua nazionale, ufficiale, universalmente usata o nel registro popolare o in quello aulico, a seconda del contesto e del bisogno…

Lasciatemi “léggere” queste parole “leggére”, che volano nell’aria senza più tempo e senza più spazio, lasciatemi ricordare questi nostri poeti di cui sono sempre di meno quelli che se li ricordano. Lasciate che la gente li ascolti, tra un pieno di benzina alla pompa e un caffè bevuto in fretta prima di imboccare l’autostrada, in piedi, davanti al bancone del bar di un’area di servizio che, forse per snob, si fa chiamare “cafè”, con una sola effe, con lo stesso vezzo di chi esibisce la sue erre moscia o la sua esse blesa per sembrare più nobile.

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