I segni della decadenza li noti dovunque in questa città, nelle strade, nelle viuzze, negli slarghi, nelle piazze, sulle facciate di edifici pubblici e privati che si fanno compagnia senza conoscersi l’uno con l’altro a causa della troppa differenza di stile e di linguaggi architettonici. Noti i segni del degrado nel tessuto urbanistico slabbrato, nei muri sbocconcellati, nelle erbacce che si sono impadronite di spazi verdi e di giardini, mentre altri terreni si mostrano incolti e sterili ove più potrebbero apparire lussureggianti. Il degrado morale lo avverti in questa teramanità avvizzita, ormai improduttiva, che attende il domani senza speranza e vive l’oggi come se fosse un tempo eterno. Il degrado politico ti manda molti segnali e non puoi non coglierli, negli esiti delle scelte fatte, sciagurate, e in quelli delle scelte non fatte, altrettanto drammaticamente esiziali. La decadenza è ovunque, ti circonda, ti sommerge, ti angoscia.
Il pensiero va a ciò che era e non è più, a quello che poteva essere e non è stato, al poco che ci resta e quanto poco si pensi, o si speri, di conservarlo e di renderlo seme per le fruttificazioni future. La caduta verticale dei sogni e delle aspirazioni la noti in questo stare in piazza a parlare del nulla, in questo scambio di ruoli tra gli stessi personaggi, che, dopo aver fallito, si ripropongono per altri fallimenti, riuscendo a strappare per vie misteriose il consenso che gli serve per continuare ad amministrare il nulla basandosi sul nulla.
La decadenza culturale la vedi - e ti spaventa - in questa malattia mortale che ha infettato le nostre istituzioni, in cui più pontifica chi ha meno letto e scritto e langue chi ha tanto pensato e tanto riflettuto, proponendo inutilmente il risultato delle proprie riflessioni e indicando vanamente soluzioni.
La decadenza la noti in queste librerie che chiudono o che stentano a sopravvivere, nel numero dei lettori di libri e di giornali, nel basso livello delle discussioni e degli interventi nei blog ai quali pure si affida gran parte della ricerca di senso della comunicazione dell’incipiente terzo millennio.
La scorgi nel tentativo di pochi di rinnovare la quantità e la qualità della partecipazione democratica, dello stile di vita e dell’amministrare la cosa pubblica, nello scarso seguito che essi hanno, preferendo la massa seguire come gregge pigro e indolente i vecchi capipopolo di cui non si comprende come siano riusciti a meritarsi il credito di cui ancora godono.
Quello che è stato grande e decade porta i segni di un trucco svanito, il sapore di un cibo andato a male, l’odore di cose stantie e il sentore ovattato di ascolti ormai non più basati sulla percezione chiara e distinta dei suoni; presenta l’immagine di foglie ingiallite che cadono dai rami sempre più spogli e rinsecchiti. Il liquido dell’acquario in cui siamo immersi è sempre più sporco e meno trasparente per la putredine e il marciume che si accumula.
Non riusciamo più a trovare una ragione per vivere - ma nemmeno una ragione per non vivere - in questa città che lentamente, ma inesorabilmente, muore.
Dove sono le discussioni animate dei giovani che si aprono alla vita con il desiderio di cambiare le cose?
Dove sono i luoghi in cui i dibattiti prendono corpo perché dal confronto di opinioni nasca l’idea geniale, la novità, la trovata?
Dove sono gli spazi e i tempi da dedicare all’immaginazione e che cosa s’è fatto perché essi fossero ampi e non angusti?
Che s’è fatto in questa città perché spirasse l’aria del cambiamento e non quella mefitica di un immobile permanere nelle consuete usanze?
Dove si nasconde l’amore per la conoscenza?
Conosciamo gli esecutori e i mandanti di un delitto atroce commesso ai danni di questa città, eppure li lasciamo circolare liberi e impuniti in mezzo a noi, o di persona o nella nostra memoria. Di alcuni di essi celebriamo ancora periodicamente i fasti, invece di ripensare meriti non meritati e di rimettere in discussione lodi sperticate e immotivate. Perfino le provocazioni volute in questa città rimangono senza risposta e non trovano un’eco, quale che sia, come se ogni voce dissonante avesse l’amaro destino di finire in una caverna profonda da cui ogni suono che vi entri non fuoriesce in alcun modo.
Ogni suono viene assorbito e si perde, ogni movimento si spegne, ogni colore svanisce e ogni respiro evapora. In questa città si è condannato a morte l’antico perché lo si è scambiato per il vecchio; si sono distrutte le prove di una aristocratica antichità perché sono state interpretate come indizi di una decrepita vecchiaia; si è anelato al nuovo solo perché lo si è considerato l’effimero segnale di una diversità transeunte.
In questa città abbiamo, tutti, la comune colpa grave di aver cancellato la memoria pensando che fosse un orpello pesante, un bagaglio gravoso, insopportabile, lungo un cammino di cui, avendo smarrito il ricordo del punto di partenza, non si è più saputo quale fosse la meta.
Chi ci salverà dal declino finale? Saremo ridotti come Aquileia, che fu una capitale e l’incuria dei propri abitanti la ridusse al rango di un paese tra i cui resti storici venivano lasciate a razzolare le galline? Chi ci salverà dal precipitare nel gorgo a spirale che ci inghiottirà senza possibilità di sfuggire alla sua presa?
Ci sono tra noi traghettatori sufficientemente arditi da provare a portarci sull’altra riva, visto che in questa la polvere dell’ignavia sta ricoprendo ogni cosa?
Teramo sarà un giorno una città sepolta come Pompei ed Ercolano?
Fermiamoci. Arrestiamo questo incedere insulso e includente. Riflettiamo. Ragioniamo. Pensiamo. Analizziamo i problemi, cerchiamo soluzioni. Dobbiamo trovare il capo di un gomitolo aggrovigliato e provare a riordinare il filo della nostra storia e della nostra vita politica e civile. Non lasciamoci vincere dalla rassegnazione. Ricominciamo a studiare.
Leggiamo di più. Frequentiamo le librerie e le biblioteche. Ridiamo dignità al lavoro e alla competenza, basiamo sul merito e sul suo riconoscimento le nostre espressioni di stima. Apriamo linee di credito, morale, sociale e politico, verso chi se ne mostra degno. Riconosciamo i nostri errori, pubblici e privati. Impegniamoci a non farne più.
Smettiamola di credere che tutto abbia un prezzo, anche la dignità. Ricominciano ad apprezzare ciò che vale e a disprezzare ciò che va biasimato, non lodato.
Liberiamoci dalla schiavitù verso padroni che per troppo tempo hanno approfittato di noi. Troviamo nuove parole per parlare e per scrivere.
Allarghiamo i nostri orizzonti, pretendiamo nuovi comportamenti, da tutti, da politici e amministratori, da tutti i cittadini che tali vogliono essere e non sudditi.
Raddrizziamo la schiena. Non confondiamo i reati con i peccati, pretendendo di essere assolti dai primi confessandoli, come facciamo con i secondi.
Non viviamo alla giornata e ricominciano a progettare. La nostra città va ripensata, ricostruita. E’ ancora possibile.
Ma salviamoci dal canto delle Sirene, perché come ad Ulisse, esso potrebbero arrecare anche a noi molte insidie e molti pericoli, che dobbiamo evitare ad ogni costo.
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Un capolavoro. Grazie.