Salta al contenuto principale

Il corrosivo: Dialogo tra due signore.

di Elso Simone Serpentini
7 minuti

Fu soltanto per l’intermediazione di un amico comune che le due Signore riuscirono ad incontrarsi, cosa che non avevano mai fatto prima. Il luogo dell’incontro fu una equivoca locanda di periferia, dove la gente diceva che si incontrassero clandestinamente coppie di amanti e persone di sesso diverso (almeno nella maggior parte dei casi). Era un albergo a ore, la cui insegna era illuminata a metà, perché alcune lettere erano spente, ma risultava lo stesso leggibile: “Locanda Penombra”. Non appena si trovarono l’una di fronte all’altra, le due Signore cominciarono subito a prendersi a male parole. Una era cicciotella e formosa, aveva un abito bianchissimo, il cui candore riusciva a illuminare la stanza; l’altra era ossuta ed emaciata e indossava un abito scuro come la notte. Le parole di entrambe vennero pronunciate come sibili, tanto erano gravide di reciproco disprezzo. Tutto il loro dialogo fu in realtà uno scontro, rimasto a lungo verbale e poi degenerato nella violenza fisica.

SIGNORA L. – Io e te sappiamo benissimo che non ci siamo mai potute vedere.

SIGNORA O. – Lo riconosco. Né vedere né incontrare. Ovunque, e comunque, quando sei arrivata tu, io son dovuta andare via e, quando sono arrivata io, sei dovuta andare via tu.

SIGNORA L. – Ognuno di noi ha il proprio regno e i propri sudditi, mia cara. I miei sono illuminati, i tuoi no.

SIGNORA O. – Il mio regno sarà oscuro e misterioso, ma almeno non abbaglia e non ferisce gli occhi. Anche tu, come me, hai il potere di rendere ciechi gli uomini.

SIGNORA L. – Veniamo al dunque. Finora questa città faceva parte del mio regno. Perché mi hai cacciato via e mi hai costretto ad andarmene? Soprattutto, chi ti ha aiutato? Perché non ti saresti certamente impadronita di Teramo, se qualcuno non ti avesse offerto i propri favori.

SIGNORA O. – Ho fatto tutto da me. Anzi, non ho fatto altro che arrivare io quando sei andata via tu. Tu te ne sei andata e io sono arrivata, nella piazza centrale, lungo il Corso, in ampie zone della città, sia del centro che delle periferia, in ospedale, al palazzetto dello sport.

SIGNORA L. – Mi avevano avvertito della tua tendenza a dire sempre il falso. Io sono stata costretta a retrocedere da quelle zone, quando sei arrivata tu, non viceversa. So che non ti ha aiutato il sindaco in questa tua avanzata, come pure molti hanno detto, e sono convinta che non ti abbia aiutato nessuno degli assessori, ma qualcuno deve averti dato il proprio sostegno.

SIGNORA O. – Anche quel balordo di Gas ha continuato a dire che nessuno lo aveva cacciato da Teramo e che nessuno lo aveva costretto ad andare via dalle tubature, ma tutti sappiamo che non è vero e che ci fu chi…

SIGNORA L. – Ma che ne vuoi sapere tu, che vai raccattando le chiacchiere della gente e le fai tue?
Questa città era mia, è mia, anche perché chi la governa è affiliato alla mia loggia, sono io che li illumino e Teramo è una città illuminata che ha il diritto di restare illuminata.

SIGNORA O. – E che sarà mai se i residenti si fanno una bella cura disintossicante? Non puoi pretendere di fare sempre tu la padrona. Su alcune realtà è bene che eserciti io il mio dominio.

SIGNORA L. – Sì, sulla politica, sugli affari, sulle vicende bancarie, sulla sanità, sulle scelte dei collaboratori e sulle nomine, su quelle hai sempre esercitato tu il tuo potere. Ma nelle strade, nelle piazze… devo essere io a regnare, altrimenti la gente incespica, inciampa, cade, batte la faccia in terra e si fa male.

SIGNORA O. – Illusa. Ti illudi. Ormai il tuo potere è ridotto. Tutti sanno che non puoi continuare ad avanzare e devi retrocedere. Hai visto che ti hanno cacciato anche dall’Università, dal Braga, dalla Regione Abruzzo, dove si affollano e si aggirano fantasmi dallo strano nome, Dedalus… Icarus… 

SIGNORA L.- Non fai fede al tuo nome. Tu dovresti essere ignorante, e io sapiente, tu all’oscuro delle cose e io nella loro piena conoscenza.

SIGNORA O. – Le cose si sono rovesciate, mia cara. Le parti si sono invertite e quello che facevi tu ora lo faccio io e quello che facevo io lo fai tu. Non hai visto come è andata a finire con il processo sul terremoto dell’Aquila? Non ci sono responsabili, non ci sono colpevoli, il fatto non sussiste, non ci sono stati dei morti e non c’è stato alcun terremoto. Pensavi che anche la giustizia fosse nel tuo dominio? Se mai lo è stata, adesso sai che è nel mio.

SIGNORA L. - Vantatene pure…

SIGNORA O. - Certo che me ne vanto. Potrà anche essere che le strade e le piazze di Teramo, quelle dalle quali ti ho cacciato, tornino nel tuo possesso, ma alcune mie conquiste sono ormai irrevocabili, irreversibili e non riuscirai mai a capovolgere questa realtà. Ti sei illusa troppo a lungo di tenere sotto la tua protezione quella baldracca…

SIGNORAL. – A chi alludi?

SIGNORA O – Alla Signora Verità, che ha fatto sempre la santarellina, sicura della tua protezione. Per lei è finita. E’ nelle mie mani, la caccerò in un postribolo e le farò fare la puttana, la donna di tutti, come merita. Ognuno se la godrà a proprio piacimento. Lo stesso farò con le sue amiche, le altre belline, santarelline, beghine: Fede, Carità, Speranza, Onestà…

Fu in quel momento che le due vennero alle mani, incapaci di proseguire in una conversazione sia pure tanto accesa. Si presero per i capelli, si avvinghiarono, si insanguinarono e strepitarono tanto che qualcuno chiamò la polizia. Il commissario che intervenne le identificò: la prima, quella con il vestito bianco, si chiamava Luce, quella con il vestito scuro si chiamava Ombra. Nel suo verbale, il commissario scrisse che le due Signore si erano rivelate tutt’altro che signorili e avevano continuato a offendersi in modo scurrile anche in sua presenza. Le aveva lasciate andare e ognuna era uscita da una porta diversa della “Locanda Penombra”, continuando ad inveire l’una contro l’altra. Quando arrivò in Questura, il commissario ci pensò su un momento e poi strappò il suo verbale.

Chi glielo faceva fare a cacciarsi nei guai? Stava uscendo per tornare a casa, quando nel suo ufficio mancò la corrente elettrica. La luce si spense. Si affacciò alla finestra e vide che anche in strada era tutto buio. Si sdraiò sul divano e, vestito com’era, si mise a dormire.

Commenta

CAPTCHA