Cercherò di spiegare in poche parole in che cosa consiste il principio del “tanto deve morire”, a cui purtroppo tanti direttori generali di Asl si ispirano, soprattutto da quando sono costretti a tagli di bilancio, dovendo risanare conti resi esangui e deficitari dagli sprechi passati e presenti.
Purtroppo a questo principio si ispirano anche molti reparti ospedalieri e le strutture sanitarie pubbliche, spesso con la complicità di medici compiacenti.
Una volta che la medicina ufficiale ha stabilito una diagnosi infausta (anche per non accrescere gli indici di mortalità dei vari reparti, quando non se ne ha uno specificamente dedicato all’oncologia), gli operatori sanitari si arrendono, ritenendo inutile continuare cure costose che non porteranno l’ammalato verso la guarigione.
Ogni dispiegamento di risorse cessa e il paziente terminale viene abbandonato a se stesso, senza alcun supporto psicologico, né per lui né per la sua famiglia. Il paziente terminale diventa un peso e una voce passiva per un bilancio aziendale. “Tanto deve morire”: una volta il medico decretava essere arrivato il momento del prete e poi quello del becchino. In chi pratica e predica la medicina ispirata a questo principio quell’espressione diventa una sentenza di condanna definitiva: la chiusura del sipario.
Per la medicina caratterizzata dal modello alternativo a quello del “tanto deve morire, definito “Medical Humanities”, la sentenza infausta non è una fine, ma un principio, un inizio, che, grazie all’intervento della psiconcologia, del tutto assente in tutto l’Abruzzo, riduce la tendenza a separare il fatto tecnico da quello umano, riportando i valori umani al centro della pratica medica. Nelle strutture più avanzate si attua la “Mindfulness Based Stress Reduction”, che consiste in una pratica, rivolta sia a pazienti oncologici, sia ad operatori, che consiste nel rivolgere un’attenzione consapevole a se stessi, al proprio corpo, alle proprie sensazioni, in un atteggiamento quanto più possibile non giudicante, attraverso esercizi di respirazione, rilassamenti, yoga e meditazione. Tale pratica si rivela assai utile ai fini della riduzione dello stress del paziente oncologico e migliora la sua qualità di vita. La necessità di considerare la “componente persona” nella sua interezza e di non eliminare la soggettività, sia del paziente che del medico, rende indispensabile il modello definito biopsicosociale in quanto anche lo psicologo trova uno spazio, che nel modello bio-medico non viene assicurato.
Questo modello, che si avvia negli anni ’70 in America, consente di considerare la persona, sia in stato di buona salute che in malattia, nella sua interezza, cioè nelle sue componenti “bio” (effetti sull’organismo della malattia), “psico” (effetti psicologici ed emozionali) e “sociale” (rapporti sociali e famigliari, atteggiamenti culturali, convinzioni religiose, stato socio-economico).
Questi tre “livelli”, però, non devono essere considerati separatamente, ma come parti di un sistema unitario in continua interazione tra loro.
Seguendo il primo modello, il paziente viene considerato in funzione dei sintomi della malattia, come oggetto di terapia ed auspicata guarigione.
Seguendo il secondo, il paziente viene considerato come una totalità in cui biologia, corpo, mente, emozioni e relazioni sociali non possono essere isolate e tratta separatamente. Questo porta a considerare, nella cura della persona, fondamentale prestare attenzione non solo alla componente “bio”, ma a tutto l’individuo nel suo insieme. In questa prospettiva, è necessario, imprescindibile, il ruolo della psiconcologia, tanto da essere parte integrante della moderna assistenza ospedaliera. Il suo compito principale è quello di integrare l’azione medica con la biografia del paziente, in modo da contestualizzare e “personalizzare” la storia della malattia di ciascun paziente, unico e irripetibile nella sua soggettività. Perciò molta attenzione viene riservata non solo ai pazienti, ma anche ai loro famigliari, allargando così il campo della cura. Ne deriva la necessità di una integrazione dei saperi e delle varie professionalità, in un’ottica di collaborativa multidisciplinarietà.
La “buona cura” è il “prendersi cura della persona”, prestare attenzione alla persona in quanto essere umano, prendersi cura dell’impatto e del significato che la malattia ha per la persona malata, per i famigliari e per i medici. Il ruolo dello psiconcologo è fondamentalmente quello di comprendere tali aspetti della cura e del “prendersi cura”, trasmettendoli a medici ed infermieri, tramite un intenso lavoro d’équipe e la formazione psicologica degli operatori.
Ecco, questa fa rabbia nella situazione teramana.
La regione Abruzzo è stata per decenni l’unica regione italiana nella quale non è esistito nessun hospice (benché se ne prevedessero sette) per i malati terminali e solo da un anno ne esiste uno a Lanciano, mal funzionante. La regione Abruzzo è ancora oggi la sola regione in cui la psiconcologia è del tutto sconosciuta. Fa ancora più rabbia il fatto che, invece di progredire e aprirsi alla psiconcologia, addirittura nella ASL di Teramo si cancella proprio l’oncologia, spedendo il malato oncologico in mezzo agli altri malati, in reparti non specifici, non specializzati e del tutto disumanizzanti. E’ proprio questo che fa vergogna, questa applicazione del principio del “tanto deve morire, non importa dove e come muore”. Perché c’è chi si arroga il diritto di non garantire la dignità nemmeno a chi muore.
Simon Soel
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