Quella che sto per raccontarvi è la storia di un naufragio, quello della città in cui sono nato e in cui sono vissuto.
Potrei cominciare dicendo: “C’era una volta una città capoluogo, chiamata l’Atene d’Abruzzo, dove tutti erano colti, ricchi e felici…”, ma non direi la verità.
Teramo era chiamata sì, l’Atene d’Abruzzo, ma a saper leggere e scrivere erano in pochi, così come erano in pochi ad essere ricchi e felici e forse nemmeno i ricchi erano felici, troppo impegnati a spendere il meno possibile per continuare ad essere ricchi.
I più erano poveri e non felici nemmeno loro, perché la povertà non rende mai felici, anche se c’è chi retoricamente dice e teorizza il contrario.
Ma la Teramo di una volta era una città viva. Posta per decenni al confine settentrionale di un Regno, era quasi l’ombelico del mondo e i teramani che ne erano consapevoli difesero la libertà della loro città dalle ambizioni di qualche potente che ne voleva il dominio assoluto.
Inviarono messi ovunque, anche a Madrid, per rivendicare l’indipendenza della loro città.
Una volta che era stata ceduta ad un Duca, la ricomprarono dall’Imperatore che l’aveva venduta e si impegnarono a pagare una somma stratosferica che sapevano benissimo di non poter pagare e che riuscirono a non pagare dopo la morte del venditore e del primo compratore.
Teramo era una città viva, una volta.
Sonnacchiosa, a volte, ma viva. Poi diventò sempre più sonnacchiosa e sempre meno viva.
Oggi sta morendo del tutto, forse è già morta, anche se non tutti i suoi abitanti lo sanno.
E’ una città degradata e, come accade ad ogni soldato, la degradazione arriva dal degrado e al degrado un soldato arriva con e per i suoi vizi.
Una città ci arriva con e per l’incuria dei suoi abitanti, che non l’amano abbastanza per evitare di vederla deperire o per accorgersi del degrado.
Racconterò il naufragio di questa città, ma la narrazione non sarà lineare, cronologicamente ordinata, basata su argomentazioni.
Non mi affiderò ai concetti, prodotto dell’intelletto, né alle idee, prodotto della ragione, ma alle immagini, prodotto dell’immaginazione produttiva, alle emozioni, prodotte dal sentimento, alle sensazioni, prodotte dalla sensibilità.
Affiderò il tutto ad un bottiglia, come fanno i naufraghi, che lancerò nel mare dal ponte di questa nave che affonda, tra gli ordini incoerenti di un capitano incompetente e l’incuria dei suoi nostromi, l’incapacità del timoniere e l’indifferenza dei marinai.
Questa nave non sta affondando per la furia di qualche tempesta o per la forza del vento di tramontana che gonfia troppo le vele o per le onde del mare troppo alte per non sommergere la chiglia e l’intero vascello. No, il veliero sta affondando perché il capitano maldestramente ha ordinato di abbattere gli alberi e le vele si sono squarciate, il legno è marcito e nessuno ha riparato gli squarci per evitare che l’acqua entrasse nella stiva e appesantisse troppo la navigazione.
Stiamo affondando senza reagire, nemmeno con un tardivo ammutinamento, per il quale occorrerebbe un minimo di capacità di indignazione che nessuno a bordo ha più.
Chiunque si troverà tra le mani la bottiglia, chissà tra quanto tempo, e sfoglierà le pagine di questo racconto, sappia che non avrò abbandonato la nave nemmeno nell’ultimo rigurgito dell’acqua sulla tolda sommersa, a meno che la mia scomparsa individuale non l’abbia preceduto.
Sappia anche che avrò lasciato la bottiglia tra le onde solo in quell’estremo istante.
Sappia che il naufragio non sarà stato colpa di un ingrato destino o del fato perverso, ma degli uomini, che della nave hanno approfittato fino a quando hanno potuto, senza curarsi di come procedeva la navigazione se non attenti al proprio personale tornaconto, senza apparentemente badare al fatto che il naufragio avrebbe trascinato a fondo anche loro.
Non saprei dire quando, con precisione, il naufragio sia cominciato. Forse, ed è naturale, non c’è stato un momento preciso, quello in cui si è aperta nella chiglia una piccola, piccolissima falla, dalla quale è cominciata ad entrare l’acqua. Quel che so è che ad un certo momento l’acqua ha cominciato ad entrare, e tanta, ed è parso troppo evidente perché l’allagamento della parte più bassa della nave potesse sfuggire all’osservazione, anche indiretta.
A pensarci bene, forse quella che vi racconterò non è nemmeno una storia, che avrebbe bisogno di un inizio, della narrazione dei fatti successivi e poi di una discrezione della situazione attuale.
La mia non sarà nemmeno una narrazione, e nemmeno una descrizione…
Allora mi si chiederà: che cosa sarà? Non saprei rispondere a questa domanda.
Probabilmente ciò che inizia qui, in questo flusso di parole che ha comunque un abbrivio, è una serie di riflessioni, sul filo della memoria, riguardo a ciò che Teramo era e ora non è più e che costituisce, proprio per il carattere tipico di una mancanza, la ragione e al tempo stesso la natura del suo naufragio.
Un vascello sommerso quasi del tutto dalle onde sta continuando ad affondare senza che la tempesta sia particolarmente ed epicamente inaffrontabile, anche nei giorni di bonaccia, non solo in quelli in cui le vele vengono oltraggiate dal freddo vento di tramontana o da un violento libeccio.
Se preferite un’altra metafora, dirò che Teramo sta morendo, come un animale al quale le troppe e troppo sanguinanti ferite stanno togliendo a poco a poco la vita… Vi parlerò di queste ferite, le conterò, una per una, e vi mostrerò quanto sangue da esse continui a sgorgare.
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