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REFERENDUM sulla GESTIONE dell'acqua

di Simona Settepanella
7 minuti

Siamo ormai alle porte di questo referendum di cui poco si e' parlato sul piccolo schermo, ma molto sulla rete.Gia' diverso tempo fa, durante la campagna di raccolta firme per il referendum sull'Acqua, scrissi quello che pensavo:http://www.teramonews.com/chiare_fresche_e_dolci_acque-18331.html

Ho deciso di farlo nuovamente per due ragioni:
1. credo che questo tema sia FONDAMENTALE per il bene nostro e del nostro Paese;
2. dopo quanto accaduto a Fukushima, la paura che il referendum raggiunga il quorum e quindi i referendum sull'acqua vadano in porto, ha spinto molte potenti lobby con le mani "a bagno" a intraprendere una potentissima campagna disinformativa contro questo referendum.
Mi sento quindi in dovere di fare le seguenti precisazioni a dubbi, perplessita' e affermazioni erronee che ho letto qui e li':

1. AFFERMAZIONI: "Di Pietro vuole convincerci"; "Il PD prima dice una cosa poi cambia idea"

RISPOSTA: Precisiamo: l'IDV e il PD NON c'entrano nulla con i due referendum sull'acqua (quelli promossi dall'IDV sono solo Nucleare e Legittimo Impedimento).
Qui:
http://www.acquabenecomune.org/raccoltafirme/index.php?option=com_conte…

potete leggere i promotori. Sono TUTTE ASSOCIAZIONI di cittadini, da gruppi di Amnesty, passando per associazioni dei consumatori, fino alla conferenza degli istituti missionari d'Italia (che dio li abbia in gloria…). Inclusa, ovviamente, la Fondazione di Banca Etica. Cosa pensa chi cavalca un movimento quando ormai questo movimento e' forte non mi interessa. Personalmente guardo a CHI l'ha promosso per capire quali sono gli interessi in gioco. Leggendo i promotori di questo referendum io so che l'interesse in gioco e' il bene comune, cioe' anche il mio, e voi?

2. AFFERMAZIONE: "Dicono cavolate, l'acqua non si privatizza, resta pubblica"

RISPOSTA: L'acqua sara' ancora e sempre e ovviamente pubblica, ma, a meno che una persona non si svegli la mattina e vada a prendere il suo secchio d'acqua al pozzo, la DISTRIBUZIONE dell'acqua e' praticamente equivalente all'acqua. Infatti oggi giorno l'acqua viene utilizzata quasi ESCLUSIVAMENTE attraverso i canali forniti dai gestori, quindi le due cose sono INSCINDIBILI (a parte, ovviamente, il solito e solido contadino con il pozzo e la pompa propria).

3. AFFERMAZIONI: "vogliono bloccare la privatizzazione dell'acqua"; "sono contrari alle privatizzazioni" et similia

RISPOSTA: Falso. Questo referendum NON abolisce la privatizzazione dell'acqua, chiede solo di abolire quella parte del decreto Ronchi che la rende OBBLIGATORIA al 40%. A proposito, ma dove si e' visto mai in un mercato libero l'obbligo di vendere? Questo poi me lo spieghera' chi sostiene la "liberalizzazione".

4. AFFERMAZIONI: "Guardate cosa accade al Ruzzo, che bollette salate"

RISPOSTA: Guardate cosa accade a Pisa dove la gestione e' per quasi meta' privata. Personalmente spendo molto piu' di acqua che per luce e gas messe insieme (gas senza riscaldamento). A Teramo le cifre che vedo qui non le ho mai viste. Inoltre l'acqua Pisana e' IMBEVIBILE perche' dentro c'e' di tutto, causa la cattiva manutenzione delle tubature: addirittura una volta nell'acqua potabile sono finiti anche i liquami in seguito a una rottura. A Teramo l'acqua e' ottima.

Vi chiedo di pazientare ancora un po' leggendo questo pezzo fino alla fine. Perche' ora vorrei vedere insieme a voi, un'ultima volta, cosa dicono esattamente questi referendum, cosa vanno a modificare (nella versione estesa li trovate qui: http://www.acquabenecomune.org/raccoltafirme/index.php?option=com_conte… ) e chi vi si oppone.

Quesito 1: Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione.

Rispondendo SI a questo quesito direte no a quella parte del decreto Ronchi che stabilisce l'obbligo, per tutti i gestori di servizi idrici di avere una partecipazione MINIMA del 40% da parte di gestori privati. In soldoni, sara' ancora possibile privatizzare come si vuole, MA non obbligatorio. Se il servizio rende alla cittadinanza, la cittadinanza puo' decidere di tenerselo. Inoltre l'abrogazione di questa parte della legge permettera' di recepire quella Comunitaria in materia che e' migliore.

Quesito 2: Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all'adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norma (http://www.referendum-2011.info/remunerazione-acqua.html)

Rispondendo SI a questo quesito direte che il 7% in piu' in bolletta per remunerare il capitale investito NON lo volete pagare e non ritenete che un capitale, in un libero mercato, DEBBA ESSERE OBBLIGATORIAMENTE remunerato, ma che il guadagno debba arrivare solo da una buona gestione.
Ci rendiamo conto che qui si parla di dare una REMUNERAZIONE GARANTITA per un capitale investito su un bene, l'acqua, del cui consumo si puo' essere certi al 100% vista la sua natura di bene primario?
Il 7% garantito non lo danno nemmeno i buoni del tesoro (ed e' piu' probabile che vada fallito un Paese piuttosto che l'uomo smetta di bere). Abbiate pazienza, ma qui mi sembra che si stia scherzando.

In breve: queste NORME sono ANTILIBERALI poiche' prevedono OBBLIGO di vendita, anche se c'e' resa, e remunerazione GARANTITA del capitale: entrambe negazioni di due principi cardini della teoria economica capitalista e liberale. A questo aggiungerei l'argomeno chiave di cui ho parlato anche nel mio vecchio articolo. NON puo' essere oggetto di libero mercato un bene necessario a cui un consumatore deve OBBLIGATORIAMENTE dire si.
Notazione linguistica a margine: obbligatorio e' tra i CONTRARI di libero.
Quello che sta accadendo con l'acqua e' parte integrante dello stesso fenomeno "deviante" che ha portato alla crisi economica che stiamo vivendo. Fenomeno che DEVIA completamente dalle basi della teoria del libero mercato, ma che viene difeso proprio da chi questa filosofia propugna. Una contraddizione, un assurdo logico inspiegabile se non con i potenti interessi che si muovono dietro. Ma questo e' un altro argomento.

Detto questo vorrei pormi, al solito, la classica domanda: CHI CI GUADAGNA?

Da una parte abbiamo il Comitato promotore e sostenitore del referendum fatto da associazioni di volontariato che da sempre regalano il loro tempo a scopi sociali e di miglioramento del territorio. Dall'altra la societa' di comunicazione e lobby Utopia lab
( http://www.utopialab.it/ pagata da chi?), la multinazionale francese Veolia (con la sua amica Suez), alcune tra le principali Banche italiane che gia' investono nel settore (tra le prime ci sono San Paolo, Banco Popolare, Unicredit, Dexia Crediop, Mps e Bnp), F2i (fondo di private equity) partecipato al 55% da San Paolo, l'Unicredit, Merryl Lynch e sette fondazioni bancarie (tenete presente che la remunerazione garantita e' importantissima per assicurarsi ottime prestazioni borsistiche). A me sembra che qualcuno si prepari un bel banchetto a spese mie senza invitarmi.

Sinceramente non sono un genio, ma se dovessi decidere del parere di chi fidarmi, non avrei dubbio alcuno: la societa' civile. Quella che lotta per difendere i MIEI interessi, non quelli di lobby. Ho seguito questa vicenda dalla nascita e io VOTERO' 2 SI!

Augurandomi che andiate a votare e votiate SI a questi due quesiti vi saluto con la speranza che chi decide di non votare o votare NO, abbia almeno in mano un consistente pacchetto azionario di F2i.

Buon voto a tutti.

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utopia lab è la stessa società di promozione del leccaculismo all'inaugurazione della cui sede oltre a personaggi inutili alla mergelletti (quello che ci spiega da anni perchè siamo troppo forti per vincere le guerre a 4 terroristi male armati, e poi dopo 10 anni invece siamo ancora lì a farci sparare), il senatore quagliariello e la sua magna carta, c'era anche il nostro paolo gatti miao... aggiungiamo che a capo dei comitati per il no c'abbiamo mazzitti e cerulli irelli... oh ma che gli ha fatto il ruzzo a questi? possibile che non siano riusciti a far assumere manco un parente?
I tre veri pilastri della conservazione PRIVILEGI, CORPORATIVISMO, DEMAGOGIA I tre veri pilastri della conservazione Da più di vent'anni le «riforme» sono il grande mito della politica italiana. Invocate da tutti, promesse da tutti, dalla destra, dalla sinistra, quasi mai realizzate da nessuno. Ma regolarmente, imperturbabilmente, promesse sempre di nuovo da tutti. Sono il grande mito perché per giudizio unanime (ultimo quello del governatore Draghi: «L'Italia ha un disperato bisogno di riforme») sono la sola cosa da cui il Paese può sperare la salvezza: e cioè di riguadagnare il terreno che stiamo perdendo in tutti settori, di riacquistare efficienza, di ricominciare a crescere, di tenere insieme le sue varie parti. Che cos'è che in Italia impedisce di «fare le riforme»? La risposta è semplicissima: la loro impopolarità. Ci troviamo ad essere strangolati da un paradosso micidiale: proprio perché sono così vitalmente necessarie, le «riforme» suscitano un'opposizione fortissima in grado di bloccarle. Enormemente più forte che in altri Paesi, questo è il punto. Ciò accade perché altrove, in genere, una riforma vuol dire un provvedimento impopolare sì, ma che non cambia le regole del gioco, non cambia il principio sul quale la società è costruita. Da noi invece no. Le riforme di cui noi abbiamo più bisogno, infatti, sono quelle che dovrebbero rompere proprio il meccanismo con cui funziona la nostra società, mutarne alla radice lo spirito e la mentalità. Quando in Italia si dice «riforme», bisogna esserne consapevoli, si dice in realtà «rivoluzione». E la più difficile tra le rivoluzioni: quella culturale. Qualunque sia il provvedimento a cui si pensi per modernizzare il Paese, per rimetterlo in carreggiata, ci si accorge subito, infatti, che esso va immancabilmente a colpire uno dei tre pilastri sui quali si regge gran parte della società italiana: il privilegio, il corporativismo, la demagogia. Certo: bisogna scorgere i concreti, concretissimi interessi particolari, settoriali, che ognuna di queste cose alimenta e tutela. Ma tali interessi, però, non avrebbero mai potuto costituirsi e solidificarsi come hanno fatto, senza una premessa di tipo essenzialmente culturale condivisa dall'intera società italiana. Che qui ha la sua anima, la sua più vera antropologia. In Italia qualunque individuo così come qualunque istituzione, qualunque impresa capitalistica non sopporta né il merito, né la concorrenza, né controlli indipendenti. Qualunque categoria, qualunque organismo non sogna altro che monopoli, numeri chiusi, carriere assicurate, condoni, esenzioni, ope legis, proroghe, trattamenti speciali, pensioni ad hoc, comunque condizioni di favore. E quasi sempre ottiene quanto desidera. Ricorrendo, come ho detto, all'arma vincente della demagogia. Specie a partire dagli anni Settanta, infatti, corporativismo e privilegi hanno progressivamente soffocato la società italiana costruendo (o avvalendosi di già pronte) costruzioni ideologiche menzognere, le quali avevano regolarmente al proprio centro i «diritti», la «democrazia», la «solidarietà»: parole d'ordine, discorsi, che agitando ogni volta la bandiera del bene e del giusto in realtà sono serviti unicamente a promuovere il più spietato particolarismo o a saccheggiare le casse pubbliche. Spessissimo a tutte e due le cose insieme. È contro questa autentica muraglia socio-culturale - la quale nella sua essenza non è né di destra né di sinistra, potendo essere indifferentemente entrambe le cose - che da decenni s'infrange, o meglio si spegne appena levatosi, qualsiasi vento riformatore italiano. L'imponenza di quella muraglia, infatti, ha l'effetto di porre in una condizione di eterna minoranza la dimensione del bene comune, dell'interesse collettivo, che in tal modo non riesce ad avere alcun peso politico determinante. È per questo che le riforme non si fanno, e in particolare non si possono fare proprio quelle che ci servirebbero di più. Il dispositivo corporativistico-demagogico-antimeritocratico è divenuto lo strumento grazie al quale da due decenni il cuore maggioritario della società italiana reale neutralizza la sfera della politica, imponendo in cambio del proprio consenso la sua impotenza. Lo strumento grazie al quale essa neutralizza di fatto tanto la destra che la sinistra all'insegna della loro comune, certificata, impotenza; grazie al quale, infine, ne cancella i profili, ne vanifica identità e programmi. L'iperpoliticismo resta sì, dunque, come un carattere tipico della sfera pubblica italiana. Ma esso non è più il predominio del comando politico sulla società, com'è stato fino alla fine della prima Repubblica. Ora è piuttosto la penetrazione/subordinazione capillare e diffusa, l'uso continuo della politica da parte delle infinite articolazioni corporativo-antimeritocratiche della società. La quale realizza per questa via una sua antica vocazione: servirsi del potere, disprezzandolo. Ernesto Galli Della Loggia 12 giugno 2011