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Quel 100 e lode in nome del nonno...

di Giancarlo Falconi
35 minuti

Prendete un pò di nonno e nonna, nonna e nonno, un pò di mamma e papà, un pò di zia, di fratello, di amiche e amici, di professori, di preside, di scuola, di poesia, immaginazione, curiosità, di estro, luna, di polvere, di libri, di intensità e mescolate.
Paolo Garrubba è la memoria di Paolino Medori, suo nonno.
La speranza che tutti i Paolo Garrubba di Teramo hanno verso il mondo e la propria Terra.
Un giorno dovranno tornare dopo aver imparato a regalare altre vite senza dover sopravvivere.
100 e lode non è solo un voto di maturità, ma un complesso di archi a liceo, di un classico che diventa scuola di pensiero ed educazione.
Il suo lavoro è l'indice di un nuovo libro da scrivere in nome e per conto di noi attesi.
Un ipertesto che diventa la crasi e l'antitesi della noia attraverso il viaggio fuori e dentro le mura del proprio essere.
Italo Calvino, nelle Città Invisibili, scriveva " L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. »
La bellezza di una tesi, inizia dalla prima parola.
Amore e le sue....

MOLTEPLICITÀMolteplicità
Non omnis moriar multaque pars mei vitabit Libitinam; usque ego postera crescam laude recens

(Hor. Carm. III 30) 

In memoria di mio nonno Paolino

“Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un solo io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica …”

(Lezioni americane; Italo Calvino)

 MOLTEPLICITÀ

Da sempre il poeta ha ambito a descrivere la molteplicità delle relazioni, in atto e potenziali, ma, pur avvicinandosi di parecchio a tale impresa, non ci è riuscito mai pienamente. Il problema è assai semplice quanto irrisolvibile: la concezione di un’opera d’arte offre la possibilità di dire tutto, in tutti i modi possibili, ma al contempo di isolare e rendere raccontabile la singola storia che si è deciso di narrare.  Il poeta deve quindi muoversi dalle infinite storie che si rincorrono, verso un’unica storia che ancora non esiste, ma che potrà esistere solo accettando dei limiti e delle regole: si è costretti a compiere una scelta che permetta all’uomo di allontanarsi dal caos per connettere parole in accordo con un immagine o un pensiero. Gli antichi mostravano di essere chiaramente consapevoli di questo problema, quando aprivano i loro poemi con l’invocazione alla Musa, giusto omaggio alla dea che custodisce e amministra il grande tesoro della memoria, di cui ogni mito, ogni epopea, ogni racconto fa parte. La Musa serviva dunque a tener presente in modo implicito, accanto alla vicenda principale, tutte le storie possibili. La stessa funzione aveva la scena fissa nel teatro greco, cioè quella di rappresentare il luogo ideale, fuori dello spazio e dal tempo, dove tutte le tragedie, così come tutte le commedie possono svolgersi. Così le fiabe ed i miti tramandati oralmente di generazione in generazione presentano un grado di massima indeterminatezza temporale con le tipiche iniziali: “C’era una volta”, “Quando tutto cominciò”, “Da quel tempo”. Questi incipit  danno l’idea di una cornice generica a partire dalla quale, tra infinite storie, una viene scelta e raccontata.

Secondo la concezione platonica l’anima, prima di essere reincarnata in un nuovo corpo, doveva bagnarsi nelle acque del Lete che cancellava i ricordi della vita passata; allo stesso modo il poeta aspira ad annullare se stesso per entrare in altri corpi e raccontare la realtà da molteplici punti di vista. Calvino ad esempio nelle Lezioni Americane non riesce a spiegarsi come “isolare” una storia singola, se essa implica altre storie che la condizionano e queste altre ancora che si estendono per l’intero universo. Può esistere un romanzo che contenga l’intera spiegazione della realtà in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le combinazioni possibili? “L’opera letteraria è una porzione minima in cui l’universo si cristallizza in una forma, in cui acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in un’immobilità mortale, ma vivente come un organismo.”. È un’opera aperta, dinamica che cresce su sé stessa fino ad animarsi sfuggendo alla pietrificazione della forma. Nelle opere che saranno illustrate ricorre il tema della ricerca che già di per sé istituisce un movimento lungo il quale l’opera trova una sua dilatazione. Tra chi fugge da una guerra per tornare nella sua cara patria a chi è alla stregua furente di una donna inafferrabile, da chi viaggia da una forma all’altra fino a chi si abbandona all’oblio per riannodare il filo dei ricordi.

LE ODISSEE NELL’ODISSEA

Il tema dominante dell’Odissea è il viaggio di Ulisse, che attraverso innumerevoli peripezie riesce a tornare ad Itaca. Scopo della sua vita è dunque riappropriarsi del passato perduto, restaurare (come accade in molte fiabe popolari) un ordine ideale anteriore che è stato violato. Ma quali sono al di là di ciò le ragioni per cui si mette in ballo il grandioso poema omerico in relazione alla molteplicità? Essenzialmente per due motivi: uno risiede nel carattere (ηθος) di Ulisse immortalato magistralmente nell’incipit: “L’uomo dai molti percorsi cantami, Musa, colui che molto vagò dopo aver abbattuto la rocca sacra da Troia: di molti uomini vide le città e comprese la mente, e molti dolori in mare patì nel suo cuore per guadagnare a la vita a sé e il ritorno ai compagni.”. Il composto πολύτροπος “dai molti percorsi” pone in luce la duttilità e la mobilità del personaggio. Colui che perlustra luoghi fisici e recessi mentali e sfrutta le proprie risorse e il proprio ingegno per adattarsi agli orientamenti mentali e alle intenzioni operative delle figure con cui di volta in volta gli è accaduto di venire in contatto. Viene associato non a caso all’immagine del polpo che sa mimetizzarsi alla roccia a cui si attacca, in opposizione all’ατροπίης, ovvero all’incapacità di mutare il proprio atteggiamento.

Il secondo motivo è di natura strutturale perché ci sono tante Odissee contenute nell’Odissea. Il racconto del viaggiatore ritorna costantemente. Basti pensare che la Telemachia è la ricerca di un racconto che non c’è, quel racconto che sarà l’Odissea. Il cantore Femio alla reggia d’Itaca sa già i nostoi degli altri eroi; gliene manca uno, quello del suo re; per questo Penelope non vuole più sentirlo cantare. A quel punto Telemaco, mettendosi sulle tracce di suo padre, ascolta il racconto di Menelao il quale, camuffatosi da foca, riuscì a catturare Proteo, il vecchio del mare dalle infinite metamorfosi, da cui apprende che Ulisse si trova attualmente prigioniero nell’isola di Calipso. Poi il racconto s’interrompe e passa nelle mani di Omero. Giunto alla corte dei Feaci, Ulisse ascolta un aedo cieco, Demodoco, che canta le sue vicende di Troia; scoppia in lacrime dalla commozione e, svelata la sua identità decide di raccontare la sua storia. Nel suo racconto arriva ad interrogare Tiresia, dal quale apprende il suo futuro. Anche le Sirene recitano una nuova Odissea, fino alle versioni che Ulisse fornisce ai suoi cari quando ritorna in patria. Dalla sua bocca però esce il racconto di un’altra Odissea, diversa da quella descritta alla corte di Alcinoo. Allora qual è la “vera” Odissea? Forse è lo stesso Ulisse che, da abile simulatore e bugiardo qual era, si diverte a giocare col lettore? Chi può mai saperlo. Tuttavia è anche vero che, appena Penelope l’ha riconosciuto, nel talamo riconquistato, Ulisse torna a raccontare dei Ciclopi, delle Sirene … Ciò apre le porte ad un nuovo interrogativo. Non è forse l’Odissea il mito d’ogni viaggio? Omero o chi per lui probabilmente ha voluto restituire ora nel linguaggio del vissuto, ora nel linguaggio del mito la stessa esperienza del viaggiare. La potenza del poema omerico è proprio quella di nascondere dietro di sé tutte le Odissee possibili degli uomini, le presenti insieme alle altre ancora da fare. 

LA CONTIGUITÀ  UNIVERSALE DELLE FORMEcontinguità

Nelle Metamorfosi si viaggia in un’altra maniera: si cambia forma (μετα μορφη “oltre la forma”). Ovidio compone un poema che è il corrispettivo di una grande rete nella quale tutti gli elementi instaurano relazioni fra di loro. Si tratta di un universo in cui le forme riempiono fittamente lo spazio scambiandosi continuamente qualità e dimensioni e il fluire del tempo è riempito da un proliferare di racconti e di cicli di racconti. La contiguità universale tra dei, uomini e natura è uno dei temi dominanti delle Metamorfosi. Si è di fronte ad un sistema d’interrelazioni in cui ogni livello influisce sull’altro e ne viene influenzato. Il campo di tensione di queste forze che si scontrano e si bilanciano è il mito. Quest’ultimo è usato nel corso della narrazione sempre in maniere nuove; ora gli dei lo usano per dare un monito morale ai mortali, in altri casi gli stessi mortali lo usano per polemizzare contro gli dei. Ciononostante qualunque uso del mito venga fatto, Ovidio non si propone di condannarlo o assolverlo, perché così facendo starebbe imponendo una chiave di lettura forzata all’intero poema. Le Metamorfosi vogliono rappresentare invece l’insieme del raccontabile tramandato dalla letteratura senza dover scegliere tra le interpretazioni possibili. Solo per questa via il poeta sarà sicuro di non servire un disegno parziale ma la molteplicità vivente che nulla esclude. Ovidio ha creato una sorta di poema animato in cui ogni verso sembra sgorgare dal suo precedente come in un perfetto organismo biologico dove le parti collaborano al funzionamento del tutto. Nelle Metamorfosi più che la sistematicità prevale l’accumulazione: questa consente di rallentare o accelerare la storia inserendo particolari e descrizioni sempre più dettagliate e mai sfumando nel vago e garantisce allo stesso tempo la dilatazione della materia narrata. A tal scopo viene ripresa dall’Oriente l’antica tecnica della moltiplicazione delle storie. In ultima analisi le Metamorfosi sono anche il poema della rapidità: tutto deve succedersi a ritmo serrato, imporsi all’immaginazione, ogni immagine deve sovrapporsi a un’altra immagine, acquistare evidenza, dileguare. È il principio del cinematografo: ogni verso come ogni fotogramma dev’essere pieno di stimoli in movimento. Per pagine e pagine i verbi sono al presente, tutto accade hic et nunc sotto i nostri occhi, in modo perfettamente simultaneo. D’altra parte il passaggio dalla terza alla seconda persona così come l’utilizzo del vocativo provoca un avvicinamento, eliminando ogni distanza, ogni gerarchia per consegnarsi alla continuità ed alla mobilità del tutto. 

UNA MINIATURA DELL’UNIVERSO

Parando della Divina Commedia Osip Mandel’štam la paragonò ad un cristallo con queste parole: “Tutto il poema non è che una sola strofa, unitaria e inscindibile. O meglio, non una strofa, ma una struttura cristallina, un solido. Tutta l’opera è attraversata da un flusso di energia costantemente teso alla creazione di nuove forme, è un corpo rigidamente stereometrico, lo sviluppo per monosillabi del cristallo tematico.”. Borges lo considera il poema della vastità universale, che ricapitola e ripensa con assoluta originalità l’era di Omero e Virgilio, di Orazio e Ovidio. L’universo dantesco è descritto dall’astronomia tolemaica e dalla teologia cristiana: nove cerchi infernali, le terrazze di una montagna situata nell’emisfero australe sconosciuto agli antipodi di Sion e i cieli concentrici per culminare verso la fonte di ogni bene che è Dio. Nonostante la grandezza dell’opera, la Commedia è accompagnata da una precisione analitica sorprendente. Nulla è lasciato al caso, tutto trova una sua precisa collocazione e giustificazione a formare quel poliedrico cristallo estremamente variegato di personaggi, vicende, luoghi, incontri e registri linguistici. Un’opera totalizzante, dunque. Dove il poeta decide di farsi personaggio per evitare di far coincidere l’autore dell’opera con Dio stesso dando erroneamente ad intendere di voler anticipare il Giudizio Universale. Egli invece si sdoppia in agens e auctor, facendo diventare un poeta ciascuno degli uomini del suo mondo fittizio, ciascun soffio, ciascun particolare. Si ha la parvenza che la Commedia sia divina per il fatto di essersi fatta da sé come somma d’innumerevoli punti di vista. Essa è un personale racconto da parte di un uomo del Medioevo rispetto ad un universo governato da Dio attraverso la forza cosmica dell’amore (“l’amor che move il sole e l’altre stelle”). È lo stesso amore che muove Dante verso Beatrice, per la quale deve purificarsi dal peccato attraversando i tre regni dell’oltretomba. Secondo Borges è proprio l’incontro con Beatrice la ragione fondante del “miglior libro della letteratura”. Ma Dante non riuscirà mai a possedere pienamente la sua donna, all’incontro seguirà il traumatico distacco. Lo scopo del viaggio di Dante è intraprendere un processo che inizia dallo smarrimento per fare capolino alla purificazione, al ritorno a Dio, secondo l’immagine finale del cerchio, simbolo dell’eternità senza inizio e senza fine. Nelle ultime terzine al poeta vengono a mancare le forze, tanto risulta incomprensibile alla mente umana lo spettacolo di cui è stato testimone. Come a dire non esiste poesia davanti ad eventi impossibili da riportare attraverso parole. Ciononostante il libro di Dante è un microcosmo in cui si trovano tutte le cose: ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà. È il “carmen perpetuum”, il libro dell’eterno come suggerisce Borges ancora una volta: “Sono tanti anni che la Commedia mi accompagna, e so che se la leggerò domani vi troverò cose che finora non ho visto. So che questo libro durerà ben oltre la mia veglia e le vostre veglie.”.

IL POEMA “ERRANTE”

 Nell’Odissea prevale il tema del nostos, il ritorno in patria. Nella Commedia il ritorno a Dio. In entrambi i casi si tratta di recuperare qualcosa di perduto (il passato, la fede). Il fine dei due poemi è dunque la riconciliazione e il ristabilimento di un ordine. L’Orlando furioso è invece un poema aperto, dunque senza ordine. Basti pensare che il capolavoro di Ariosto si rifiuta di cominciare – in quanto “gionta” dell’Orlando innamorato di Boiardo – e si rifiuta di finire – è infatti incompiuto data la morte prematura dell’autore ad un anno dalla terza pubblicazione del 1532. Dalla prima edizione del 1516 fino all’ultima il poeta ferrarese lavora febbrilmente alla sua opera intervenendo sulla lingua, sulla versificazione e aggiungendo episodi nuovi nei canti centrali. Il metodo che Ariosto ha seguito è proprio la ricerca di questa dilatazione dall’interno, creando episodi da episodi, nuove simmetrie e nuovi contrasti. L’Orlando furioso preconizza la nascita del romanzo moderno. È un’enciclopedia aperta in cui ogni cosa, ogni evento è messo in discussione. Persino il metro utilizzato, l’ottava, presenta una notevole discontinuità ritmica: ai sei versi legati da una coppia di rime alterne succedono i due versi a rima baciata, con un effetto di brusco mutamento che Ariosto impiega per cambiare registro stilistico o per introdurre una nuova storia, come fa in questo caso: “Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: ma seguitiamo Angelica che fugge.”. Questo procedere a zig zag di ciascun personaggio, come se fossero delle pedine su un’infinita scacchiera, non si saprebbe meglio condensare nell’immagine più rappresentativa dell’intera opera data dal castello incantato del mago Atlante: tutti entrano nel palazzo, attratti dalla visione d’una donna amata, d’un nemico irraggiungibile, d’un cavallo rubato, d’un oggetto perduto, ma appena vi sopraggiungono esso svanisce e si è costretti inevitabilmente a riuscire. Ma cosa raccontano i 46 canti? Sullo sfondo della guerra tra Carlo Magno e il re d’Africa Agramante, si svolgono essenzialmente due trame: la prima racconta come Orlando divenne, da innamorato sfortunato di Angelica, matto furioso, e come le armate francesi, a causa della perdita del loro combattente più valoroso, rischiarono di perdere la Francia, e di come Astolfo sull’ippogrifo si recò sulla Luna per recuperare il senno di Orlando. Parallela a questa storia c’è quella degli amori di Ruggiero, campione del campo saraceno, e della guerriera cristiana Bradamante, e di tutti gli ostacoli che si frappongono al loro destino nuziale. Da queste due storie se ne ramificano altre secondo la tecnica dell’ “entrelacement”, ossia del perdere il filo di una narrazione per cominciare a tessere il filo di un’altra, che, una volta terminata, cederà il passo a quella inizialmente interrotta. “Le donne, i cavalieri, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese” popolano il mondo ariostesco, una visione del mondo quasi anacronistica ( quello medioevale delle corti, della Chanson Rolande, dei cicli bretoni) che scricchiola sotto il peso di una nuova. L’ironia tra passato e presente domina tutto il poema e si esprime attraverso una forza demistificatoria potentissima sia per i desideri (le “quêtes”) da cui i personaggi sono animati, sia nei riguardi del potere politico e religioso.Ariosto cerca quasi disperatamente di ritagliarsi uno spazio di libertà e in questo modo insegna che non esiste un’unica prospettiva sulla realtà. I continui inseguimenti che si succedono evocano una ricerca continua, un desiderio come mancanza incolmabile che costringe gli uomini a rimanere eterni cercatori.

UN’ESPERIENZA MULTISENSORIALEdffdfdfd

 L’Adone del Marino è un tipico esempio di come la poesia, sulla base di tutte le conoscenze rivoluzionarie del XVII secolo, possa essere concepita in maniera tridimensionale, quasi virtuale. La parola quindi non è solo descrittiva, ma anche evocativa e i cinque sensi sono il nucleo di questa nuova possibilità di contemplare il mondo. La poesia diventa un’esperienza multisensoriale, volta unicamente a sorprendere il lettore. Di per sé l’argomento dell’opera è abbastanza circoscritto: Adone, splendido fanciullo, figlio di Mirra, è amato dalla dea Venere ed è da essa portato nel suo regno, in particolar modo nel Palazzo dei cinque sensi, dove i due amanti godono dei piaceri dell’amore. La materia viene dilatata dal poeta in una costruzione di venti canti costituiti da poesia eminentemente descrittiva. In pratica la trama, estremamente esile, finisce col cedere il passo ad un’abbondanza di particolari, dove hanno importanza lo sviluppo materico, la capacità di percepire gli oggetti attraverso i cinque sensi e infine l’ammirazione per il preziosismo formale. (Così la melagrana agli occhi del poeta barocco si muta in un aureo scrigno ricolmo di gemme) Non è un caso che gli amori di Venere e Adone si sviluppino all’interno di un immenso edificio le cui strutture architettoniche si alternano a spazi aperti. Come afferma il critico Giovanni Pozzi “Nel poema di Marino si attuano una forma del contenuto e un contenuto della forma. Il lettore, mentre il filo narrativo gli descrive le delizie delle pitture, gli effluvi delle piante o il canto degli uccelli, sollecitato dal modo in cui la materia linguistica è tagliata e con cui i temi sono disposti realizza la sensazione di trovarsi nello spazio nel quale l’avvenimento si compie.”. Riprendendo la tecnica alessandrina del tecnpegnio o dei carmina figurata, la poesia restituisce anche un’immagine grafica sulla forma degli oggetti presi in esame. Come il sistema planetario intuito da Keplero, il poema di Marino sembra disegnare una spazialità ellittica, che non gira più intorno ad un unico centro, ma si muove intorno a più centri, duplicando continuamente anche le funzioni narrative. Più che di storie che escono fuori da altre storie, nell’Adone di Marino si può parlare di caotiche enumerazioni e digressioni sui dati del reale raccolti in una specie d’ideale museo, in una preziosa e splendida galleria che ricorda le illustrazioni di Poussin o le volte affrescate dai Carracci. Il proposito nuovo e fondamentale del poema è inventariare, catalogare, creare una vera e propria enciclopedia che vuole esaurire tutto il conoscibile, tutto quello che può essere nominato. La struttura del poema nella sua totalità è data dal palazzo di Amore che sostituisce al sistema verticale della visione teologica, il sistema orizzontale della visione scientifica. Il palazzo è simile ad un magazzino regolato dal criterio della distribuzione e del rapporto, senza alcun motivo trascendente. Il lettore si trasforma in un cybernauta che esplora in lungo e in largo un mondo virtuale, dove tutto è fruibile per mezzo dei cinque sensi.

GLI STATI MOLTEPLICI DELL’ESSERE

 

“Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi.”

(Marcel Proust; Discorso contro Sainte-Beuve)

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la Recherche non è un libro di memorie, costruito secondo le leggi d’associazioni d’idee, come per l’Ulisse di Joyce o per La coscienza di Zeno di Svevo. La resurrezione del passato è possibile grazie ad una sensazione (la madeleine inzuppata nel tè), cioè all’incontro fortuito con un oggetto. Non si tratta pertanto di associazioni libere, poiché il meccanismo ruota fuori dall’ingranaggi dell’intelligenza e della memoria cosciente o volontaria. La Recherche di Proust non è un “roman à tiroirs”: le varie parti che lo compongono, anche se enucleate ciascuna in un titolo, non sono mai concluse e sufficienti in sé stesse. Chi abbia letto “All’ombra delle fanciulle in fiore” o “Sodoma e Gomorra” non può in nessun modo pensare di conoscere un’opera, che per la sua stessa natura non comporta frammentazioni, ma da un capo all’altro è tutta rigorosamente intrecciata. Il tema è ancora il romanzo come rete che lega ogni cosa, ma in Proust la rete è fatta da punti spazio-temporali, occupati successivamente da ogni essere, il che comporta una moltiplicazione infinita delle dimensioni dello spazio e del tempo. Cogliere l’essenza del reale per l’autore francese vuol dire ritrovarsi, fuori dal tempo, in altri esseri, in altre cose. Anche l’amore è visto come un’esperienza conoscitiva, poiché amare una persona significa in un certo senso ritrovarcisi dentro, possedere tutti i punti che nello spazio e nel tempo la persona amata occupa. “Se non possediamo il suo contatto con il tale luogo, con la tale ora, noi non lo possediamo. Ma tutti questi punti non possiamo toccarli”. Ecco allora che l’amore passa attraverso la sofferenza dell’inafferrabilità, questo “ritrovamento” è destinato ad essere sempre cercato e mai trovato. L’amore così come il desiderio di una verità ultima, contenuta in un ipotetico romanzo, in grado di spiegare tutta la realtà sono chimere lontane e irraggiungibili. Il cosmo presente negli uomini sotto forma di caos indifferenziato, di stati molteplici dell’essere è impossibile da rappresentare, poiché altrettanto impossibile risulta concepire “un’opera al di fuori del self”. La Recherche è in conclusione l’esempio di un romanzo enciclopedico che, nell’ansia di contenere tutto il possibile non riesce a darsi una forma e a disegnarsi dei contorni e resta incompiuto per vocazione costituzionale.

 L’ESEMPIO DI UN “IPER-ROMANZO”fdfdf

“Il giardino dei sentieri che si biforcano” di Jorge Luis Borges è un racconto di spionaggio che include la descrizione di uno sterminato romanzo cinese. Il protagonista Tsun riflette sul suo antenato Ts’ui Pên, noto per due opere: un romanzo, apparentemente insensato, e la costruzione di un labirinto che nessuno mai è riuscito a trovare. Tsun si reca dal suo amico Stephen Albert, studioso di lingua e letteratura cinese, e scopre con sorpresa che egli ha decifrato l’enigma dell’opera di Ts’ui Pên: il libro e il labirinto sono la stessa opera. Eccone spiegato il segreto: “In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse scelte ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên, ci si decide – simultaneamente- per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano […] (Ts’ui Pên) credeva in infinite serie di tempo, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano, comprende tutte le possibilità. Nella maggior parte di questi tempi noi non esistiamo; in alcuni esiste lei e io no; in altri io, e non lei; in altri, entrambi.” È questa anche la definizione che Calvino dà di iper-romanzo.

L’idea di un numero infinito di realtà alternative in cui ogni possibile scelta è concretizzata ricorda molto l’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica formulata dal fisico e matematico Hugh Everett III nel 1957.

Everett si confrontò per primo con Ernest Schrödinger, il quale illustrò nel celebre esperimento mentale del gatto il seguente dilemma: se oggetti microscopici come elettroni possono stare in combinazione di diversi stati perché non dovrebbe essere così anche per quelli macroscopici? Dopotutto basta pensare ad un qualsiasi evento "puramente quantistico", ad esempio il decadimento di uno stato metastabile, che ne influenzi uno "classico" provocando la morte o meno di un gatto. Per l’interpretazione di Copenaghen  la misurazione, l'atto dell'osservatore "rompe" l'evoluzione dinamica quantistica (descritta dall'equazione di Schrödinger, fondamento della meccanica ondulatoria) e causa il collasso della funzione quantistica, riducendola alla sola alternativa percepita: l'osservatore vedrà uno stato definito per il sistema (il gatto vivo o morto) e non una combinazione di stati, poiché la sua misura ha proiettato quel sistema in uno stato finale specifico. E quale sia il preciso stato in cui il sistema risulterà è prevedibile solo statisticamente. Per Everett si assume l’idea di una “funzione d’onda universale”.  Il caso del gatto di Schrödinger, in questa ipotesi, non è paradossale perché le due possibili alternative {\displaystyle |{\textrm {atomo}}\;{\textrm {decaduto,}}\;{\textrm {gatto}}\;{\textrm {morto}}\rangle }{\displaystyle |{\textrm {atomo}}\;{\textrm {non}}\;{\textrm {decaduto,}}\;{\textrm {gatto}}\;{\textrm {vivo}}\rangle }sono entrambe realizzate. Non è possibile rendersene conto solo perché, attraverso l'entanglement, la sovrapposizione riguarda l'intero Universo. Un osservatore, quindi, vede realizzarsi solo una delle due alternative perché fa egli stesso parte di uno dei due possibili "stati" dell'intero Universo. In sintesi l'interpretazione a molti mondi ha tentato di ridurre il ruolo protagonista dell'osservatore e di rimuovere il problema del collasso della funzione d'onda. Per ottenere questo, considera sia l'osservatore che il sistema misurato insieme in uno stato, talvolta chiamato "universo", che si evolve in modo deterministico senza alcuna scelta casuale dei risultati delle misure. Al momento dell’osservazione, a seguito dell'interazione fra gli apparati sperimentali o fra i sensi dell'osservatore con il sistema misurato, lo stato globale si divide in numerosi "mondi", uno ciascuno per ogni possibile risultato della misura. In questo modo nessun risultato casuale viene prodotto dalla misurazione. Ad esempio se si misura una variabile che ammette sia i valori "0" o "1", ci saranno due mondi, uno in cui l'osservatore misurerà "1" e un altro in cui invece otterrà "0". L'osservazione è un processo che modifica sempre gli stati dei sistemi misurati, ma adesso, al contrario dell'interpretazione di Copenaghen, i sistemi osservati più gli osservatori evolvono insieme secondo leggi deterministiche che stabiliscono come sono fatti i "singoli mondi", con i loro possibili risultati, e come è strutturata la totalità di essi: l'"universo". Questa intuizione ha posto le basi per la ricerca di mondi paralleli e ponti spazio-temporali, ancora oggi largamente dibattuti.

Da due poemi di questa sommaria lista di romanzi come reti di relazioni, si arriva ad un importante conclusione. Nella letteratura medioevale si tendeva a opere che esprimessero l’integrazione dello scibile umano in un ordine e una forma di stabile compattezza. Nella Divina Commedia convergono una multiforme ricchezza linguistica e l’applicazione d’un pensiero sistematico e unitario come per la tradizione neoplatonica e cristiana. Nell’ambito della prima alla base di tutto c’è l’Uno e il movimento dall’unità alla molteplicità è concepito come un disperdersi e un depotenziarsi della realtà originaria. Nell’ambito della filosofia cristiana la molteplicità è insita nella stessa sostanza divina, una e trina. (La soluzione neoplatonica sarà ripresa nella filosofia moderna da Spinoza, dall’idealismo romantico e da Bergson). Ad ogni modo la molteplicità viene ricondotta sempre ad un principio ordinatore e universale. Invece quella che prende forma nei grandi romanzi del XX secolo è l’idea d’una enciclopedia “aperta”. Oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima. Anche se il disegno generale è stato minuziosamente progettato, ciò che conta non è il suo chiudersi in una figura armoniosa, ma è la forza centrifuga che da esso si sprigiona, la pluralità dei linguaggi come garanzia d’una verità non parziale. Il problema dunque viene capovolto: non più l’ordine, ma la molteplicità è concepita come originaria. La molteplicità dei fenomeni non viene più spiegata attraverso un principio supremo di ordine, ma è a partire dalla connessione di alcune porzioni d’ordine che si tende a spiegare la molteplicità. Un’opera che obbedisce a questa visione è il corrispettivo in filosofia del pensiero non sistematico. Esso procede per aforismi, per lampeggiamenti puntiformi e discontinui.  Ogni rappresentazione unitaria cade davanti ad una realtà mutevole e troppo complessa da fissare in una forma. Più si indaga, più il senso ultimo, quello fondante, definitivo, sfugge. Si rompe persino l’equazione tra significante e significato. Per Wittgenstein il significato di una parola non è l’oggetto per il quale essa starebbe o l’immagine mentale che la accompagna, ma va piuttosto ricercato nel suo uso regolato, nella sua grammatica. È per questo che Wittgenstein è spinto a considerare il linguaggio come un calcolo o un insieme di calcoli: comprende una parola chi sa adoperarla. Così si possono creare molteplici rapporti tra le parole e gli oggetti, e precisare alcune caratteristiche del linguaggio e degli oggetti generalmente ignorate nella vita quotidiana, come fa Magritte. Si crea cioè una spaccatura netta tra le facoltà espressive e conoscitive dell’uomo e la realtà. Per questo motivo occorre per Deleuze ripensare anche il modo in cui si conosce. Dal pensiero unidirezionale dell’albero, bisogna passare al pensiero pluridirezionale del rizoma. Il modello autoritario e verticistico dell’albero fa discendere da concetti generali una spiegazione totalizzante della realtà. Il nuovo modello meno autoritario e orizzontale del rizoma (radici vegetali a decorso orizzontale che si originano in unico punto per poi dispiegarsi in molteplici direzioni) consente una circolazione aperta tra i concetti, favorendo percorsi differenziati e connessioni inedite. Nel XX secolo accanto all’opera aperta c’è la teorizzazione di un pensiero aperto. L’opera così come il pensiero per avvicinarsi alla comprensione del caos deve contenere tutto il possibile, ma non ci riesce perché è costretto a tornare ogni volta ad una forma. L’uomo, poeta o scienziato che sia, insegue spasmodicamente un senso nella molteplicità, nel caos, per poi rifugiarsi inevitabilmente in un nuovo ordine.Tuttavia c’è qualcosa di più profondo, un filo conduttore capace di legare tutti gli esempi di opere aperte finora analizzate. Il dinamismo e la dilatazione da cui sono caratterizzate sono motivate da un unico, immortale e irrealizzabile desiderio: la comprensione di una totalità sia essa data o potenziale. L’ansia per la totalità ha portato l’uomo di ogni epoca ad uscire dagli angusti recinti del proprio io per incontrare nuovi sguardi sul mondo. Ha preferito cercare il senso della vita nelle vite degli altri e ha considerato l’esistenza stessa come una corda tesa verso gli altri. Poiché in fondo cos’è l’uomo se non relazione, se non una combinatoria di esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni. E la vita cos’è se non un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili. Così come per l’umanità anche nell’universo della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare e si continua a raccontare ancora. Per far ciò gli autori di queste opere si sono avvicinati in un modo o nell’altro ad un comune obbiettivo: trascendere sé stessi e annullare la propria percezione del mondo che vuol dire sentirsi parte di un tutto oppure, pensando ad un multiverso (un tutto potenziale), immaginare la paradossale continuità di mondi dentro altri mondi.

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