La morte di Vincenzo Cimini rappresenta la scomparsa di una figura di cui sono rimasti pochissimi esemplari: quella del geometra-poeta. Il nostro “Giacobbo”, magnifico interprete della nostra cultura contadina e del suo linguaggio popolare, era geometra, ma anche poeta, impersonando un ossimoro, una contraddizione “in terminis”, perché è davvero innaturale essere al tempo stesso, come lo era lui, geometra e poeta. Il filosofo francese Blaise Pascal distingueva l’ “esprit de geometrie” dall’ “esprit de finesse”, intendendo per la prima la naturale tendenza dell’uomo a rapportarsi con la realtà e con la seconda l’elemento, altrettanto naturale che lo spinge ad andare oltre la realtà cogliendo quelle ragioni del cuore che la ragione non comprende.
Vincenzo Cimini era geometra nei suoi progetti, nel suo continuo rapportarsi con una realtà nella quale doveva far fronte alle richieste edilizie dei suoi clienti, soddisfare le loro esigenze, perfino i loro capricci, ma era poeta nel suo travalicare quella realtà, esternandosi nei suoi schizzi e nei suoi disegni artistici, raffigurando delicatissime e vivaci silhouettes dei relatori dei convegni ai quali andava solo per realizzare i suoi piccolo capolavori, non per seguire i discorsi più o meno vaneggianti che si tenevano in aule spesso “sorde e grigie”.
E’ difficile essere a tempo stesso geometri e poeti, ma in Cimini il binomio era del tutto naturale. Anche da geometra era poeta, e quindi visionario quanto bastava per essere qualcosa di più di un geometra. E non quell’ ‘ingignìre” che prendeva ad esistere nell’appellativo che gli affibbiavano i suoi clienti contadini, per i quali non esistono i geometri, ma solo gli ingegneri, pertanto i geometri venivano tutti nobilitati e promessi sul campo (il grande Francesco Merlini, celiando, soleva dire: “Sono geometra, ma chiamami ingegnere. A te non costa niente e a me fa piacere!”), No, Cimini era poeta anche quando faceva il geometra, perché progetti e disegni che gli altri vedevano da geometri, lui li vedeva da poeta. Mi raccontava di essersi invano battuto per evitare l’abbattimento delle case che poi cedettero il posto al cosiddetto “palazzo del Miliardo”, tra Corso De Michetti e Via Savini. Il sindaco Gambacorta, che pure da intellettuale avrebbe dovuto essere lui il “poeta”, ne volle a tutti i costi l’abbattimento, in nome della modernità di Teramo, e invece si comportò da “geometra”. Cimini, tentando di convincerlo che quegli edifici non andavano abbattuti, era geometra, ma si comportò da poeta e da poeta perse la battaglia e fu sconfitto.
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