Alti e schietti
Alti e schietti anche noi lo eravamo,
non cipressi, ma pini, belli e annosi.
Anche noi in duplice filare salutavamo
chi a Teramo arrivava, sempre curiosi
di scoprire se fosse forestiero o paesano
chi arrivava in automobile o dalla stazione,
sceso dal treno, bagaglio nella mano.
Anche noi, come a Bólgheri, una ragione
fornivamo con l’ombre nostre di ristare
al sole del giorno o nel fresco della sera.
Ora dove ci ergevamo noi parcheggiare
è consentito. Abbattuti, tagliati, finiti,
siamo caduti, vittime, senza una capinera
che abbia pianto per noi. Siamo spariti.
Ancora oggi molti mi chiedono: “Come fu possibile l’abbattimento del Teatro Comunale, senza che i teramani si opponessero?”
Me lo chiedono anche dopo aver letto al libro che ho scritto sull’argomento, ricostruendo dettagliatamente la vicenda. E questo è sorprendente, La risposta è semplice: fu possibile abbattere il Teatro dell’Ottocento come è stato possibile questa mattina abbattere i pini antistanti la scuola “Noè Lucidi”, nell’indifferenza di tutti o di quasi tutti, nell’impotenza dei pochi che colsero e che colgono la gravità, nell’ignoranza di chi prese e di chi ha preso a grave decisione. Non sentimmo dire che, in fondo, quel Teatro non era poi così artisticamente e storicamente valido, non abbiamo sentito dire che questi pini di storico avevano poco? Non abbiamo sentito dire che perfino il Corso di Teramo non ha un valore storico, così come non ce l’ha il teatro antico, non tanto almeno da valere la pena di spendere soldi per recuperarlo?
Non abbiamo visto nel tempo l’abbattimento di tanti altri edifici storici di Teramo e l’erezione al loro posto di scatoloni di cemento?
Non abbiamo corso il rischio di vedere abbattere il vecchio Campo sportivo, che si è salvato solo perché le ragioni affaristiche che avevano decretato la sua fine sono venute meno?
La Teramo che non c’è più cresce e si restringe la Teramo che è riuscita a salvarsi. Gli scempi urbanistici hanno continuato a compiersi davanti agli occhi dei teramani, che sono rimasti sostanzialmente indifferenti, anche quando qualcuno, isolatamente, ha espresso il proprio rammarico e il proprio rincrescimento.
Anche i pini della “Noè Lucidi” sono stati condannati a morte e la sentenza è stata eseguita nell’indifferenza generale o dei più. I teramani, apatici e distanti, menefreghisti e assenti, continuano a pensare ciascuno al proprio privato, non avvertendo il concetto della proprietà pubblica e non sentendo propria la propria città. Non l’amano abbastanza e non si sentono teramani se non a parole e molti, inurbati, nemmeno a parole. Cresce nei più amorevoli la voglia di andarsene, di lasciare i concittadini al proprio destino e alla loro ignavia, alla ricerca di un padrone alla cui ombra protettiva scodinzolare nell’attesa di una prebenda o di una protezione del proprio privato. Cresce la rilassatezza morale che sta condannando a morte certa questa città, cresce la mancanza di quello spirito civico che avrebbe potuto salvarla, ma che appartiene ad un numero troppo ristretto di cittadini.
Per la maggioranza dei teramani, che disertano i luoghi e gli eventi culturali, che vivono alla giornata in una sibaritica rinuncia ad ogni principio di attività collettiva, che accettano di tutto da chi li amministra, ogni scempio e ogni olraggio, e continuano a votarli, l’unico vero valore, quello per il quale sarebbero disposti a vivere o morire, è “’na magnate de pasce”.
Acquerellata collezione Fabrizio Pedicone
Foto Debeora Serpentini
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