Sono deluso. Sono stupito. Sono indignato. E probabilmente sono anche arrabbiato. La stessa rabbia, se così può definirsi, che si prova quando si vede oltrepassare il limite senza poter far nulla per impedirlo. E senza che chi è remunerato per farlo, economicamente e politicamente, sia capace di muovere un dito per impedire che questo limite venga oltrepassato. Un limite che in questa Città è stato mille e mille volte ignorato. Un limite dettato dal buon senso, prima ancora che dall’amore per la propria terra o per la cultura. Un limite la cui noncuranza ha permesso che in passato i vertici degli enti territoriali, ignoranti in cultura tanto quanto lo sono in trasparenza e umiltà, consentissero demolizioni e scempi che hanno ridotto questa Teramo ad una brutta, squallida copia della più anonima periferia di Belgrado.
Un limite ignorato che ha permesso l’installazione di pattumiere, mascherate da isole ecologiche, di fronte a quel che resta dell’Anfiteatro Romano e del Teatro Romano. Un limite ignorato che ha permesso la demolizione di un gioiello qual era il Teatro Comunale. Un limite ignorato che ha permesso asfalti in pieno centro storico, che permette illuminazioni da terzo mondo nelle zone storiche della Città, che ha permesso ruspe ovunque e ovunque demolizioni. Un limite ignorato che ha eliminato l’Arco di Monsignore, che ha eliminato le colonne con le coppe in Piazza Garibaldi, che ha tollerato e favorito abusivismi edilizi di ogni tipo in spregio ai più elementari dettami dell’estetica, se non delle leggi. Un limite ignorato che ha permesso che il Castello Della Monica cadesse a pezzi, prima di avviarne un restauro tanto parziale, quanto eterno. Un limite ignorato che rende quasi giustificabile che si possa scambiare Vittorio Emanuele II, ammesso che certi nostri politici sappiano chi sia, con Vittorio Emanuele III. Un limite ignorato che giustifica l’ignoranza nella toponomastica, che considera i libri un effimero accessorio, che snobba archivi nomi e date. Ma che si inchina all’arroganza ignobile dei ruoli politici, del denaro e del numero dei voti. Un limite ignorato che ci ha tolto, giorno dopo giorno, tutti quei pezzi di storia che hanno rappresentato la trama fondamentale di questa Città e che i nostri rappresentanti, nella loro fulgida visione, hanno potuto permettersi di considerare superflua robetta.
Un limite ignorato che installa i varchi elettronici, salvo poi tollerarli aperti. Un limite ignorato che ha da sempre gestito la cultura in questa Città nella stessa maniera in cui si gestisce una sagra paesana. Un limite ignorato che snobba eventi che altrove sarebbero considerati di ampio respiro e non concede ad essi un solo euro di contributo, salvo però occuparsi di stalli per porchettari e di cessione di frustoli a questo o a quel potentato politico o economico. O tutti e due, se talvolta coesistono.
Non è questo il modello di Città che ho nella mente e nel cuore. Non è questo ciò che mi è stato insegnato. Non mi riconosco nell’ignoranza di tanti, troppi dei nostri politici. Che ad essa sempre accompagnano, guarda caso, la consueta spocchia di chi, parlando e straparlando, non perde occasione per ripetere lo stantio «lei non sa chi sono io» o per azzardare penosi calcoli sui voti ricevuti e su quelli da riguadagnare.
La politica, quella dei nostri illuminati rappresentanti, non è stata capace di indignarsi quando il 10 settembre 2003 una parte di un muro esterno di un Castello Della Monica in balia dei topi e dell’incuria, crollò su se stessa. Ma che seppe far sentire la propria voce autorevole quando si trattò di gettare una colata di asfalto fumante sui marciapiedi di Corso De Michetti. Alla faccia del «mai più asfalto in centro storico», naturalmente.
Una politica che non è stata in grado di completare la sistemazione di parte delle facciate esterne del Palazzo Municipale, degne del più dimenticato paesotto dell’entroterra del Burkina Faso. Una politica che non è stata mai capace di vincolare il rilascio delle licenze dei pubblici esercizi al rispetto di una opportuna pianificazione dello sviluppo commerciale. Una politica che non è stata capace di dotarsi di una regolamentazione dell’estetica degli edifici, almeno nel centro storico. Una politica imbelle, asservita a mille e mille interessi, mille e mille nomine, mille e mille onori, mille e mille spicciole utilità. Una politica che non sa cos’é un cartellone degli eventi culturali che possa fregiarsi, e a rigore, di questo nome. Una politica che non sa neppure dove sia e cosa faccia un Archivio di Stato che è da tempo uno dei fiori all’occhiello di questa nostra Città. Una politica che di storia ne sa quanto di fisica nucleare. Una politica che tollera lo scempio di siti archeologici completi e pronti per l’uso ma abbandonati a se stessi... mentre è attivissima per tante feste e manifestazioni più o meno necessarie nell’ottica di una politica di investimenti duraturi. Una politica che non è stata in grado di dotarsi di un regolamento per la cultura, che non è stata capace di istituire un contributo volontario per gli eventi culturali, che non dà spazio ai tanti, poliedrici attori che questo territorio, grazie a Dio, è capace di esprimere e, al tempo stesso, misconoscere.
Una politica, destra e sinistra naturalmente, incapace di elevarsi dalla mediocrità che la attanaglia e che attanaglierebbe chiunque, pur nella innegabile bravura nei calcoli dei voti, non sia capace di pronunciare una sola frase in lingua italiana senza commettere errori di ortografia, di lessico o di grammatica. Una politica incapace di elevarsi dalla quasi nullità operativa nella quale è confinata, piena zeppa ahimé di teste troppo vuote e di damerini pronti a dir di sì senza capacità, né midollo per ragionare con la propria testa o per pronunciare dei no quando servono per crescere.
Una politica che, proprio in questi giorni, sigla accordi con la Soprintendenza di Chieti sul recupero del Teatro Romano senza sentirsi neppure in dovere di spiegare ai cittadini, che di quel Teatro sono i proprietari, cosa diavolo preveda quel progetto. Cosa ci sia scritto, come si opererà, quali interventi verranno condotti e quali non verranno realizzati. Nulla. Silenzio. Salvo poi lamentarsi quando qualcuno protesta dinanzi al cantiere appena istituito dopo aver visto che la ditta incaricata carica su camion e porta via innumerevoli reperti del nostro Teatro. Per catalogarli, dicono. Ma la catalogazione può essere fatta anche in loco. O magari qualcuno pensa che la catalogazione delle pietre del Colosseo preveda obbligatoriamente lo smantellamento dei frammenti presenti all’interno di esso?
Qualche illuminato rappresentante, nella ridda di dichiarazioni, ha pure ipotizzato che sia la Soprintendenza teatina ad essere in difetto di comunicazione. A costui ricordo, tuttavia, che la Soprintendenza fa il suo mestiere. Ed è il Comune, sulle cui seggiole quel rappresentante graziosamente siede, che deve fare il suo. Informando la Città su cosa quel progetto prevede, cosa che sinora non è stata fatta. E, già che ci siamo, ci dica la politica cosa ne sarà di quei due ruderi indecenti che rispondono al nome di Palazzo Adamoli e di Palazzo Salvoni. Ci dica la politica, questa politica, perché le tante e tante promesse sulla loro demolizione sono rimaste lettera morta. Ci dica la politica chi c’é dietro questi spettri e quali interessi, perché di interessi si tratta, aleggiano più o meno velatamente. E si ricordi, questo triste teatrino che della democrazia vissuta col cuore e con la passione è solo una banale imitazione, delle opere di Francesco Savini e della sua caparbietà nel riportare alla luce il nostro Teatro Romano nei primi anni del ‘900. Quello stesso Teatro che i nostri rappresentanti in passato hanno pensato di poter trattare alla stregua di un qualsiasi festival della visibilità.
Non ce l’ho con il politico di uno schieramento o di un altro. Né con il politico di oggi o quello di ieri. Non punto il dito contro la persona o il gruppo. Punto al sistema. Il sistema di una sterile politica autoreferenziale. Che poi, a dirla tutta, di referenze degne di questo nome ne ha assai poche.
È uno sfogo, il mio, contro l’ignoranza istituzionalizzata. Uno sfogo nato e montato tanto più impetuoso quanto più banalizzata e inerme vedo da decenni l’azione culturale in questa Città. Mille potenzialità, mille belle menti, mille risorse, mille idee. Nessuno spazio, nessuna programmazione, nessuna scelta, nessuna preparazione. Solo un vuoto desolante in un mare di triste, apatica, colpevole ignoranza. Culturale e politica. Ma in fondo poco conta la distinzione. Forse sono la stessa cosa. Ma non mi aspetto che i nostri rappresentanti, dell’una e dell’altra parte, di oggi e di ieri, lo capiscano.
Fabrizio Primoli
Commenta
Commenti