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Il giorno degli scatoloni per Ralph Kubelski, managing director alla Lehman Brothers.

11 minuti

"E’ toccato a mio padre, e adesso tocca a me” – pensò quella mattina Ralph Kubelsky mentre riempiva gli scatoloni liberando degli effetti personali il suo ufficio di managing director. Dietro la porta a vetri semiaperta pochi dei suoi ragazzi erano al telefono con i clienti, e quei pochi probabilmente stavano salutando qualche controparte con cui avevano dei rapporti di amicizia. Tutti erano presi da una strana frenesia: erano solo le 11 del mattino e sembrava volessero scappare via, come fosse partito l’allarme incendio. 


Lui si serrò la porta antirumore dietro e sedette su una poltroncina del salottino executive su cui ospitava i clienti più importanti, e accartocciò il comunicato stampa dopo aver riletto l’intestazione “Lehman Brothers Holdings dichiara bancarotta”.
Diede un paio di sgambate in avanti e fece rotolare la poltroncina fino alla parete di vetro spesso da cui si intravedeva una verde fettina di Central Park tra le grandi torri che limitavano la 7^ avenue a nord.


Se la grande Madre America ti schiaffeggia, Sonny, è perché devi prendere una nuova strada” – così lo chiamava suo padre, "Sonny", e se lo rivide davanti seduto sulle scalette del grande camper mentre lui, tredicenne smarrito strappato alla sua cameretta di poster, soldatini e aeroplani appesi al soffitto, lo fissava preoccupato ed eccitato allo stesso tempo. Erano venuti via da Seattle da qualche giorno dopo che una sera Mike, suo padre, era rientrato a casa annunciando che tutto quello che possedevano, la grande casa con vista sulla baia, le auto, il ranch e i loro amati cavalli, e ovviamente anche le 15 stazioni di servizio disseminate per tutto lo stato non erano più di loro proprietà. Se non se ne andavano, le banche avrebbero chiamato la polizia a smammarli, e sarebbe stato più traumatico per tutti.
Durante il periodo scolastico, Ralph aveva seguito la parabola di suo padre con orgoglio e consapevolezza crescenti. Orfano di padre, Mike ci aveva sempre dato dentro senza risparmiarsi: nel 1966, quando era nato lui, aveva appena rilevato la pompa di benzina presso cui lavorava come fac-totum, dopo che il titolare aveva concordato un prezzo vantaggioso e la Wells Fargo Bank aveva concesso un prestito che copriva quasi l’intero capitale.


Dalla fine degli anni ’60 fino al 1973 Mike aveva inanellato una serie di acquisizioni che avevano portato il marchio “K-Pow” su tutta la rete dei principali collegamenti dello Stato. Il colpo di genio era stato l’accordo con la catena di pollo fritto Kentucky Fried Chicken per creare delle stazioni di servizio in cui camionisti, commessi viaggiatori e famiglie potevano fermarsi, mangiare bene e sistemare i loro mezzi. La Kentucky Fried, che non era ancora presente nel “remoto” Washington State, gli aveva praticamente finanziato le acquisizioni, insieme, ovviamente, ai suoi “amici” della Wells Fargo. Prima della grande crisi petrolifera, che aveva fatto crollare i consumi anche del 25%, e aveva compresso i margini concessi dalle compagnie, si parlava di partire “alla conquista” di tutto l’Oregon e poi forse, chi sa, esportare il modello di business anche giù in California.
L’altra scelta di marketing che aveva fatto la differenza rispetto alle grandi compagnie era il “Taxi Hub”, che consentiva a chiunque di seguire un corso di 5 giorni lavorativi, farsi rilasciare una licenza taxi al venerdi pomeriggio, attivare una linea di credito dedicata per l’acquisto dell’auto grazie ad un accordo con la Ford, e iniziare a lavorare come tassista dal lunedì successivo. I ragazzi che diventavano tassisti da “K-Pow” si trasformavano in affezionati clienti, anche grazie ai programmi di sconti per l’assistenza tecnica. Molti di loro diventavano dei veri e propri testimonial, girando con il logo della piccola compagnia dietro il lunotto. Solo nel 1972 quasi 1.000 tra messicani, colombiani, venezuelani e ovviamente, americani avevano trovato lavoro a Seattle come tassisti, e il sindaco della città aveva visitato una delle stazioni di servizio “K-Pow” al venerdi sera, alla consegna delle licenze, fermandosi a cena al Kentucky Fried a mangiare pollo frito con i neotassisti. In quell’occasione, il sindaco aveva pubblicamente ringraziato Mike “per contribuire allo sviluppo della città, per offrire a tanti nuovi americani l’accesso al Sogno Comune e per la razionalizzazione del traffico in città”. Se n’era poi andato in taxi, mezzo brillo, dopo aver cantato “Sweet home Alabama” con Mike e alcuni invitati alla serata.

La bancarotta della K-Pow era stata per Ralph un evento inconcepibile, materializzatosi in una notte come un incubo. A ripensarci oggi, si trattava di una cosa che ormai lui conosceva bene: l’americanissimo cocktail di iperottimismo da cow-boy, la pretesa irragionevole che dal duro lavoro derivi sempre e comunque una grande ricchezza il tutto alimentato da un ricorso irresponsabile al debito.

Suo padre, comunque, dopo un paio di giorni di viaggio in camper, musica urlata andando dietro allo stereo e grigliate e birre alle pendici delle montagne che costeggiavano a nord l’Interstate 90, aveva presto riacquistato attivismo, passione e adrenalina. Aveva fatto prua verso est, destinazione Grand Rapids, nell’Ohio. Per quel fine settembre a Grand Rapids era previsto un grande raduno nazionale di motociclisti, e lui aveva caricato sul camper il kit con cui realizzava le elaborazioni “corsa” per le Harley Davidson, che era stato il suo primo lavoro quando ancora non era il boss della K-Pow.

Mentre era immerso in questi pensieri, alcuni colleghi erano entrati nel suo ufficio a salutarlo, augurandogli buona fortuna e promettendo che si sarebbero tenuti in contatto.
Lui li aveva congedati ed era tornato a sedersi sulla poltroncina alternando momenti di assenza e sguardi fissi ai curiosi che dall'ufficio sull'altro lato della strada sbirciavano quello che di incredibile, quel bel mattino terso e assolato, stava succedendo alla Lehman.

Si era risolto di chiamarlo, suo padre, e magari di andarlo a trovare. Lui si era fermato a Bellevue, sul Lago Michigan, ed aveva aperto un concessionario di moto che lo aveva trasformato anche fisicamente. Mike era ormai vicino ai 70, si era fatto tatuare su tutto il corpo e girava col gilet di pelle nera e con un codone di capelli bianchi dietro il capo ormai pelato. Lo avrebbe chiamato, adesso che aveva tempo, e magari avrebbero preso due moto e se ne sarebbero andati un po' in giro insieme per le strade secondarie che lui amava ripetere erano la vera anima della "Land of the free and the brave" (terra dei liberi e coraggiosi).
= = =
Ad un certo punto prese un foglio di carta e tracciò la sua situazione patrimoniale:
Cassa USD 50 mila
Appartamento a Park Avenue USD 2,5 milioni
Pacchetto di 300.000 azioni Lehman – USD 150 mila
Porsche Carrera Cabrio – USD 130 mila
Si rese conto, desolato, che le sue azioni Lehman avevano perso 5 milioni di valore rispetto al mese precedente, e che non aveva i soldi necessari per coprire il mutuo del suo appartamento – c’erano ancora da versare oltre 1 milione di dollari, che ovviamente non aveva più, ormai.
Nelle ultime due settimane, infatti, aveva investito 300 mila dollari nell’acquisto di azioni della “sua” Lehman quando si era sparsa voce di un’acquisizione da parte di Bank of America. Era certo che il sogno della sua vita, la fonte inesauribile di prestigio e prosperità non sarebbe stata “lasciata andare” e aveva deciso di scommettere su quello che solo pochi giorni prima sembrava l’esito più probabile. Era inoltre certo che, come già accaduto per AIG, il gruppo assicurativo, sarebbe intervenuta la Fed a salvare la situazione. Non foss’altro perché, pensava, la Lehman, con attivi di oltre 600 miliardi di dollari, era troppo grande e troppo importante e troppo interconnessa a tutti i flussi finanziari globali per essere lasciata fallire. Ne sarebbe derivato un “inverno nucleare” dell’economia globale, pensava, e la Fed non avrebbe lasciato che accadesse.
E invece si era sbagliato.
Scese in garage, caricò i suoi tre scatoloni sui sedili posteriori della Porsche Carrera lasciata scapottata, e con un gesto nevrotico del polso sinistro avviò il potente seicilindri.

Passando sulla settima, fermo al semaforo, rilesse la scritta “Where vision gets build” (“Dove si costruisce la visione”) che ancora scorreva sui padiglioni luminosi ai piani inferiori del grattacielo. Al verde, rilasciò il freno e pigiò forte sull’acceleratore: in un ruggito la Carrera lo portò via da lì.
Prese il blackberry, digitò le iniziali di Cheyenne, la sua attuale fidanzata, una ex-modella texana bionda e con gli occhi grigi con cui stava insieme da appena tre mesi.  Dal vivavoce la sentì fredda e distaccata “ho un photo shooting con le mie ragazze stasera poi mi fermo a cena con quelli di Vogue, ci sarà anche la Wintour” le disse lei. “Non mi aspettare per cena”.
Chiamò il padre: “prepara una moto per me, sarò da te domani sera” gli disse. “E’ il tuo on the road moment, Sonny?” gli rispose, un po’ triste, un po’ canzonatorio, Mike.
Si ricordò della canzone che il padre metteva sempre la sera, quando si fermavano dopo cena a guardare le cime delle montagne e le nuvole illuminate dall’ultimo sole, nei giorni in cui fuggivano da Seattle. La cercò sull’Ipod. Mentre i primi estatici accordi di “Stairway to heaven” si diffondevano nel piccolo abitacolo aperto, alzò il volume e si sentì libero, sicuro, e felice. Avrebbe avuto un’altra chance anche lui.
www.youtube.com/watch

Marco Moschetta
 

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