In “Cent’anni di solitudine”, il suo capolavoro, Garcia Màrquez abbandona il realismo degli esordi per realizzare una scrittura personale, felicemente inventiva e fantastica.
Il romanzo presenta un’oscillazione tra possibile e impossibile, un mondo sospeso tra fantasia e realtà, descritto tuttavia come se fosse vero e tangibile.
“Cent’anni di solitudine” è la storia centenaria della famiglia Buendìa e della città di Macondo (un luogo immaginario dell’America latina). Il villaggio è stato fondato da José Arcadio Buendìa e Ursula Iguaràn, che si sposano nonostante siano cugini.
Macondo è un villaggio isolato nella foresta tropicale, costituito da venti case di argilla. José e Ursula hanno due figli, José Arcadio e Aureliano, da cui discendono quattro generazioni, i cui capostipiti maschi ricevono i nomi degli avi. Finché i contatti tra Macondo e la civiltà sono limitati alle visite degli zingari (che recano novità come il ghiaccio, la calamità, la lente d’ingrandimento) la vita del paese scorre tranquilla, in serena comunione con la natura.
Quando, però, i nordamericani iniziano a coltivare banane per ricavarne ricchezza, per Macondo non c’è più pace. Oltre alle trentadue guerre promosse e tutte perse dal colonnello Aureliano, padre di diciassette figli illegittimi, che ci descrivono le paradossali vicende di autodistruzione della stirpe, si aggiungono le calamità naturali, come il lunghissimo diluvio.
Infine, l’ultimo discendente dei Buendìa, un bambino con la coda di maiale, frutto dell’incestuosa passione tra Aureliano Babilonia e sua zia, muore mangiato dalle formiche e con lui si esaurisce la stirpe e la storia di Macondo.
Il romanzo di Màrquez è un riuscitissimo amalgama di vari elementi narrativi: il paradossale, che rovescia il comune sentire; il favoloso e l’inverosimile; l’allegorico, che fornisce la chiave di lettura del significato profondo della vicenda.
Il lettore si immerge in un mondo fantastico, denso di antiche tradizioni e riti, abitato da tante popolazioni differenti, indigeni, spagnoli, inglesi, francesi, portoghesi.
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”.
Macondo, paese nel cuore della foresta amazzonica, senza contatti con altri mondi a parte le periodiche visite d’indios e zingari che vi diffondono le loro scoperte, rappresenta allegoricamente la stessa America meridionale prima degli interventi statunitensi, una civiltà ingenua, pura, incontaminata, che verrà distrutta dal progresso, dalla scienza e dalla razionalità.
Macondo non è un luogo reale, ma è pensato come luogo possibile, dove regnano la felicità, la spensieratezza, la libertà. Anche il tempo non è lineare e il lettore talvolta è sbalzato all’indietro nello sviluppo delle vicende.
“Nigromanta lo portò nella sua stanza illuminata con una finzione di paralume, nella sua branda dal lenzuolo incrostato di mali amori, e nel suo corpo di cagna selvatica, impietrita, disumanata, che si era preparata a sbrigarlo come se fosse un bambino spaventato, e si trovò improvvisamente con un uomo il cui tremendo potere richiese alle sue viscere un moto di riassestamento sismico. Divennero amanti”.
“Cent’anni di solitudine” è un capolavoro di scrittura, che va letto assolutamente e riletto perché non se ne prova mai sazietà.
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