È difficile darne una definizione esaustiva. Ma il filosofo Diego Fusaro nel bel libro “Coraggio”, edito da Raffaello Cortina Editore, ha provato a indagare questa virtù sfuggente:
“Mi pare di sapere che cosa è il coraggio ma, non so come, questa idea, poco fa, mi è sfuggita, tanto da non riuscire più a riafferrarla e a esprimerla” (“Lachete”, Platone).
Non basta avere scienza e coscienza per essere coraggiosi, al contrario il coraggio è in bilico tra ragione e sentimento: Tucidide nelle “Storie” lo definiva “tolma alogistos”, “audacia irrazionale”.
Bisogna infatti essere un po’ folli e mollare i freni inibitori per andare contro corrente. Del resto nel sistema semasiologico la parola ci riporta proprio al cuore, i Romani erano convinti infatti che tutte le emozioni vi avessero sede . In quanto “ubiquitaria” essa non può essere riferita a un unico atto concreto, ma si estrinseca in modi e luoghi diversi.
Molti sono gli atti di coraggio da cui discendono svariati modi di dire: “ci vuole fegato”, “fatti forza!”, “tenete duro!” etc., ma da essi non possiamo mai rintracciare un tratto comune. Così come non si può agevolmente spiegare, allo stesso modo la scienza non può disciplinarlo o favorirlo. Sapere che un’azione vada compiuta non significa tout court realizzarla, “è solo il coraggio a infonderci l’energia pratica necessaria a far passare all’atto l’intenzione”. Infatti “il coraggio, uno non se lo può dare” ( “Promessi Sposi”, Manzoni).
E chi lo ha, agisce anteponendo il fine ai rischi del percorso e superando la paura: ”virtù del cominciamento” (“Trattato delle virtù”, Vladimir Jankelevitch), avere coraggio significa mettere in atto qualcosa che i pericoli e le avversità (o anche l’inerzia e la viltà) sconsiglierebbero. In quanto tale, il coraggio è virtù dell’hic et nunc , si estrinseca sempre al presente: come una folgore si consuma nel passaggio “dalla decisione di agire all’azione in atto”.
Aristotele definisce “falsi coraggiosi” quelli che differiscono l’azione al domani. Inoltre non si è mai coraggiosi definitivamente, si è anzi sempre alla prova di fronte a nuovi rischi poichè “marcet sine adversario virtus” (“De providentia”, Seneca). Perché il coraggio diventi virtù deve superare l’istantaneità a favore della durata, deve stabilizzarsi “nella forma dell’atto reiterato dello sforzo del soggetto agente in vista di un bonum arduum” (“Summa Theologiae”, Tommaso d’Aquino). “Da lampo, il coraggio è chiamato a diventare una fiamma che dura nel tempo rinnovandosi in ogni istante”. Deve inoltre “conquistare la dimensione stabile della durata, ma anche affrancarsi dalla sua naturale indifferenza alla morale e alla ragione”. In caso contrario esso degenera nell’audacia: ”memento audere semper” (D’Annunzio) si traduce in una forma di coraggio senza phronesis e aneu nou “senza intelligenza” tipica anche delle bestie e dei perversi.
Fusaro ravvisa la centralità del coraggio nella cultura greca: “Pochi altri sentimenti mi sembrano più profondamente greci. Il coraggio è il fondamento stesso della società antica, anche se orientato diversamente a seconda dei secoli” (Andrè Bonnard). I numerosi esempi di personaggi antichi coraggiosi (Achille, Ulisse, Ettore, Aiace, Patroclo, etc.) si possono sintetizzare nella figura di Socrate: solo con lui il coraggio si affranca “dalla sua originaria connotazione marziale” diventando “razionale” e “universale”. Aristotele supererà l’universalismo intellettualistico socratico e platonico: “Accade il contrario di come riteneva Socrate, il quale credeva “che il coraggio fosse una scienza” (“Etica eudemia”, Aristotele).
Il mondo moderno pare avere rinnegato il coraggio, a causa delle mutate condizioni politiche e sociali. Marx sostiene che nell’uomo moderno “viene gradualmente prendendo forma la doppiezza tipica di chi nasconde la propria essenza di uomo segretamente libero dietro la maschera del cittadino virtuoso e ossequioso rispetto ai meccanismi del potere”.
Ciò non significa però che manchino esempi di coraggio sia personali (Spinoza, Bruno) sia collettivi (le Rivoluzioni del 1789 o quella del 1917). Ma prevale il desiderio della gloria o del denaro sulla verità. Il “coraggio della verità”, nella felice formula hegeliana (Prefazione alla seconda edizione dell’”Enzyklopadie”) o “il coraggio del pensiero”, come lo chiamerà Nietzsche, è sempre in contrasto con le logiche del potere, che arriva anche a smascherare come inadeguate. Perché il coraggio non sia solo apparente non bastano però le buone parole, pronunciate senza reticenza (parresia), ma coraggioso è chi trasforma quelle stesse parole in azione. Chi è cosciente che il mondo non è per forza quello dato ma può essere altrimenti.
Maria Cristina Marroni
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