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Il Libro...DOVE NON ARRIVANO I SENTIERI

di Maria Cristina Marroni
4 minuti

Il legame con la terra della sua famiglia materna, Poggio Umbricchio, è tatuato sulla pelle di Fabio Petrella, giovane scrittore teramano.
Dove non arrivano i sentieri” (Edizioni Palumbi) è un romanzo in cui il mondo interiore dello scrittore si armonizza con lo sfondo corale, vibrante di umanità della popolazione di pastori della provincia abruzzese.
Nel libro si offre un’immagine dell’Abruzzo non convenzionale, ma appassionata e intensa: l’Italia di cui parla Petrella è una terra esperta del dolore e di antica saggezza, dove un fatalismo degli abitanti, frutto dell’assuefazione alle sventure, si accompagna a una miseria ereditaria. Le simpatie dell’autore vanno agli umili, “in ciascuno di essi, umiliato, Cristo muore ogni giorno”.

Protagonista della storia è Vincenzo, nato il 25 febbraio 1926 a Poggio Umbricchio, un piccolo paese dell’entroterra teramano.
La sua famiglia è assai umile, il padre è un pastore e ben presto anche lui apprenderà quell’arte e imparerà a conoscere “le montagne come il palmo della sua mano”.
La ricerca della felicità e di un futuro migliore lo porterà a emigrare in America, dove lavorerà tutta la vita come operaio.
Lì si sposerà, senza riuscire ad avere un erede.
Alla morte della moglie ritroverà le proprie origini, agognando quel rapporto simbiotico con i suoi monti. ”Si sentiva stanco e comprese che il suo tempo in America si era concluso”. Al suo ritorno Vincenzo troverà un paese mutato radicalmente: “Aveva cercato i cacciatori di stelle e i coltivatori di grano, ma tra le impervie vie del borgo erano rimasti solo uomini affranti che vivevano il crepuscolo del loro tempo”.

I nostri connazionali che scelsero l’America l’immaginarono una proiezione più felice della patria, ma così non fu. E sognarono tutti, indistintamente, di tornare a morire nella propria Terra. Ma non per tutti ciò fu possibile.
Mi vengono in mente le struggenti parole che, nelle Bucoliche di Virgilio ( I, vv, 19-45), Titiro rivolge a Melibeo su un viaggio a Roma: “Urbem, quam dicunt Romam, Meliboee, putavi/ stultus ego hiuc nostrae similem, quo saepe solemus/ pastores ovium teneros depellere fetus./ Sic canibus catulos similes, sic matribus haedos/ noram; sic parvis componere magna solebam./ Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes,/ quantum lenta solent inter viburna cupressi”. (“Vi è una città che chiamano Roma. Io stolto, o Melibeo, la credetti simile alla nostra, dove noi pastori spesso usiamo avviare la tenera prole del gregge: così conoscevo i cuccioli simili ai cani, i capretti alle madri; così solevo paragonare il piccolo al grande. Ma questa città sollevò tanto il capo tra le altre, quanto sogliono i cipressi tra i molli viburni”).

Oltre i monti la realtà sfugge, è troppo rapida, transeunte, si rinnova velocemente. La vita dei contadini è al contrario abitudinaria, statica, scandita dal lavoro nei campi.
Oltre l’Oceano c’è l’America. La speranza di non morire “cafoni”, ma operai, commercianti, comunque benestanti. Ma lì non c’è il cuore, oggi come allora.
Accanto alla storia di Vincenzo e della propria famiglia, si muovono personaggi bizzarri, alcuni reali, altri trasfigurati. Talune leggende presenti, come quella del libro del comando, sono poi veri e propri topoi del folklore contadino.

Le fonti da cui Petrella ha attinto sono Silone, Buzzati e Calvino, cui rimanda il titolo stesso del romanzo. La scrittura dell’autore si muove libera e agile attraverso i sentieri dei monti abruzzesi. Il lettore attraversa quasi fisicamente quei luoghi: sente l’erba bagnata sotto i propri piedi, vede i giocatori nel bar del paese, assaggia il caglio ancora caldo, scopre sotto la neve i corpi assiderati dei due giovani mendicanti, corre dietro i due gatti neri, ossessione del parroco.
Lo scrittore ha saputo dare un carattere di unità all’opera attraverso il suo rapporto affettivo, di umana partecipazione alle sorti dei personaggi ripresi dal vero e in genere dell’ambiente”. Dove non arrivano i sentieri cammina il nostro io ideale. Lì si muovono le nostre illusioni, ma anche i nostri sogni, che danzano al plenilunio con le streghe, risucchiati nella notte atra.



 

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Commenti

Dopo una giornata di mare un buon libro completa la Domenica. Quando si parla di lettura il mio primo pensiero va sempre a cosa leggere,per questo un aiuto viene dalla sig.ra Cristina con i suoi pregevoli consigli. Non conosco il giovane scrittore teramano e quindi neanche il libro,che presto leggero' perché dalla recensione domenicale,sempre di qualita',sembra interessante. Grazie
Gent.le Sig. Antoine, La ringrazio e le auguro una felice settimana.
Quando sei figlio di emigrati porti il velo, lo porti fuori, a volte, o lo porti dentro, come me. Erediti, come il dna, la mentalità di un paese che non conosci, una cultura che credi essere la tua, l’amore per una patria che non esiste. Io non ho mai avuto difficoltà ad integrarmi e i miei colori chiari mi hanno permesso facilmente di mimetizzarmi. Io volevo essere svizzera, perché come tutti i bambini vuoi essere come gli altri. Respiravo aria svizzera, crescevo con un forte senso civico, con l’amore e il rispetto della natura, con regole semplici e lineari, perché ovvie. La norma era rispettare ciò che ti circonda per pretendere rispetto. Per me era scontato che il banco a scuola non fosse mio e che, se lo avessi trattato con cura, chi sarebbe venuto dopo di me lo avrebbe avuto nello stato in cui lo avevo avuto io, così come i libri che la scuola offriva gratuitamente, di cui non ho mai piegato una pagina pur studiando. Eppure l’adolescenza è dura: vuoi solo essere come gli altri e l’essere italiana è stata una battaglia che ho vissuto dentro di me. Tutto quello che non ti sta bene, tutto ciò che subisci lo attribuisci al fatto di essere italiano: tutto quello che gli altri non amano potrebbe essere razzismo. Mentre alle elementari cantavo “sono un italiano” di Totò Cutugno, crescendo mi vergognavo di uscire con i miei genitori: noi italiani ci distinguevamo, eravamo più chiassosi, più tutto, anche più “vestiti bene”. Mi fingevo malata per non uscire con loro. Per le mie compagne svizzere erano normali il concetto di convivenza, vedere il papà nudo o che lava i piatti, o usare un assorbente interno (inizio anni ’80), per me la verginità era un requisito essenziale per essere degna di andare all’altare e l’uomo era il capo che accogli al rientro dal lavoro con un inchino! Ero svizzera fuori e italiana (un’italiana degli anni ‘60) dentro: una volta all’intermediario che mi dichiarava l’amore eterno di un compagno di scuola, risposi scioccata che ero troppo giovane per sposarmi! Eppure la Svizzera, pur io credendo che non fosse il mio paese, era in realtà la mia patria: i miei genitori mi hanno inculcato che quello non era il nostro paese e invece è un paese che mi ha fatto credere di avere voce come gli altri, un paese molto competitivo sin dalle scuole elementari, in cui se sei bravo la meritocrazia esiste. Noi italiani, emigrati o nati all’estero, non pensavamo mai allo ius soli o alla cittadinanza: nessuno voleva cambiarla. L’integrazione era fatta di possibilità di lavorare, di diritti senza padrini, di rispetto reciproco, di pari opportunità… tutte parole riempite di significato concreto e non in bocca a gente prevaricatrice. Ma consciamente o inconsciamente quando i tuoi genitori non vogliono integrarsi o quel tanto che serve a loro, assorbi il fatto che la tua patria è un’altra anche se tu non la conosci. Arrivata a 15 anni, essendo periodo per me di fermenti ormonali inevitabili, secondo mio padre era tempo di far ritorno, prima che qualche sprovveduto svizzero chiedesse la mia mano! Partire e lasciare tutto alle spalle: lasciare la tua scuola, i tuoi compagni, la tua casa, la tua città, tutto, sapendo di non rivederli più… di quei giorni ricordo solo un morso nella pancia. Tutto quello che sei finisce lì, si ricomincia da un’altra parte, in cui nessuno sa chi sei, nessuno o pochi conoscono il paese dal quale vieni, cosa hai lasciato. La mia prima notte in italia ho dormito abbracciata a mia cugina che mi diceva “Perché siete tornati? Chi ve l’ha fatto fare?” Una volta qui ho scoperto che se in Svizzera ero “l’italiana”, qui ero la “svizzerotta”! Qui ho scoperto che non ero italiana, e che il mio accento faceva ridere i miei compagni di scuola. Qui ho scoperto che era dura fare amicizia perché ero diversa, qui ho scoperto che non era casa mia, che io l’Italia non sapevo assolutamente cos’era. Il mio primo giorno di scuola lo passai a fianco ad un compagno di classe che per 6 ore lavorò assiduamente a bucare il banco con il brillante risultato finale di un foro di tre centimetri. Inoltre mi chiedevo come il soffitto potesse essere sporco di pedate.
Fabio Petrella è un giovane di talento, che ha ascoltato i racconti degli anziani e ne ha serbato memoria. In più nel libro c'è un'attenzione filologica accurata. Per Teramo questo giovane è una risorsa.
In alcune parti l'unità del romanzo non è perfetta, ma l'autore è supportato da un lessico accurato e da validi richiami letterari. Amalia
per il Poggio, per la terra, per le montagne :)
"Cosa rimane di tutto il tempo passato? Il sacco, il vestito e qualche altro indumento. C'è poi della terra, alcuni piccoli sassolini incastrati tra i chiodi laterali delle sue scarpe. Sono ancora frammenti della montagn, degli altissimi ghiaioni" ("Bàrnabo delle montagne", D. Buzzati) Libro consigliato. Lo scenario ricorrente è quello della natura aspra e selvaggia delle montagne, contrapposta al polverone e agli alberi gialli della pianura. l'abbandono delle vette amate è segnato dalle intemperie che fanno da sfondo, per analogia, al dolore di Bàrnabo.