Debora Serracchiani ha un viso pulito, lontano dalla bellezza appariscente e artificiale dei volti televisivi. È molto diversa da Daniela Santanchè. È avvocato, parla lentamente, non recita il politichese, ma esprime con chiarezza le proprie idee. È la candidata per il centrosinistra alla Presidenza della Regione Friuli Venezia Giulia nelle elezioni che si svolgono oggi.
Il suo libro “Il coraggio che manca”, pubblicato nel 2009, mi sembra oggi molto attuale. L’autrice racconta il suo ingresso in politica, casuale e fortuito; racconta ancora come il suo destino sia cambiato il 21 marzo del 2009, quando ha avuto il coraggio, lei giovane e sconosciuta militante, di salire sul palco dell’assemblea nazionale dei circoli del Partito Democratico e di affrontare vis à vis Dario Franceschini, l’allora Segretario del PD.
Quel suo atto spontaneo e sfrontato è poi rimbalzato in rete ed è divenuto, suo malgrado, noto. Alle successive Elezioni europee la Serracchiani è stata eletta con 144.000 preferenze.
L’autrice ha un’idea nobile della politica, che deve “tentare di risolvere i problemi delle persone, utilizzando al meglio le risorse pubbliche”. Infatti “le scelte che cambiano concretamente la vita dei cittadini – dal marciapiede nuovo, allo stanziamento di fondi per costruire un ospedale piuttosto che un centro per anziani, fino ai grandi temi come il divorzio, l’aborto, l’inseminazione artificiale, i diritti civili – sono tutte scelte della politica. La politica dunque può, in più di un modo, aiutare le persone”.
Debora non condivide la legge elettorale, perché i capi dei partiti possono gestire ogni cosa da Roma, “privando i territori della rappresentanza, utilizzando Montecitorio e Palazzo Madama come premi per i fedelissimi, i quali saranno sotto il ricatto costante dei vertici del partito, costretti a piegarsi alle decisioni calate dall’alto, proni di fronte agli accordi trasversali anche se indigeribili. Fino all’assurdo di non rappresentare nemmeno se stessi, visto che al giro successivo la ricandidatura dipenderà da come si sono comportati con i loro capi”.
Nel libro la Serracchiani si dimostra spesso delusa per la frattura esistente tra i militanti vicini alla gente e la nomenklatura del partito, sempre più autoreferenziale: “quando si dice che tra la politica e la gente c’è una distanza, è vero. E c’è una distanza enorme perché qualcuno ce l’ha messa”. E auspica un ritorno al senso fisico della parola vicinanza e a un tipo di comunicazione diretta: “parlare in modo chiaro aiuta a mettere ordine”.
Queste considerazioni dell’europarlamentare con tutta evidenza possono essere ripetute oggi: nell’elezione del Presidente della Repubblica il PD ha pasticciato, ha dimostrato di non avere una leadership intesa come mezzo per pervenire a una linea politica di sintesi, ha rifiutato di prendere in considerazione come candidato Rodotà, personalità peraltro di sinistra, invece ha strizzato l’occhio a Berlusconi. Ha preferito rieleggere un ottantottenne, piuttosto che rischiare con un volto nuovo. Non ha avuto coraggio.
Ha forse ragione Marco Pannella “che in Italia la differenza tra destra e sinistra è la stessa che passa fra i ‘capaci di tutto’ e i ‘buoni a nulla’”?
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