Dopo “La libertà dei servi”, nel saggio “L’intransigente”, edito da Laterza, Maurizio Viroli continua una spietata denuncia delle storture del nostro Paese.
L’autore si interroga sull’intransigenza come virtù, rifiutandone gli aspetti deleteri come l’intolleranza, il dogmatismo e il fanatismo.
L’Italia è il paese della “libertà facile” infatti “gli esempi d’intransigenza morale e politica sono sempre stati troppo pochi rispetto al bisogno”.
Ci sono invece situazioni complesse in cui “la fermezza è la migliore politica” per favorire il dialogo autentico, il rispetto di se stessi, il pensiero critico: “non transigeremo, perché siamo sicuri di veder giusto e sentiamo di avere con noi la ragione morale”(B. Croce).
In particolare il politologo indaga due momenti della storia italiana in cui è mancata quell’intransigenza necessaria per arrestare gli eventi: il fascismo e il sistema berlusconiano. Nel primo caso, se dopo il delitto Matteotti “un leader politico si fosse alzato in Parlamento e avesse apertamente accusato Mussolini di essere il mandante dell’assassinio, il governo non avrebbe superato la crisi. Nessuno si levò”.
Anche il “regime di Berlusconi si è affermato ed è rimasto in vita perché in troppi hanno seguito nei suoi riguardi una politica conciliante” (così Violante, Dini, D’Alema).
Viroli passa poi in rassegna alcuni esempi di intellettuali e politici intransigenti: tra questi Calamandrei, Bobbio, Parri, i fratelli Rosselli, Martinetti, Ginzburg, Croce, don Milani che, sebbene piegati dagli eventi, non mostrarono mai titubanze: “tra noi non vi è stato nessuno che al momento del bilancio finale abbia detto ‘ci siamo sbagliati’.
Possiamo anche considerarci degli illusi. O dei delusi. Ma non ci consideriamo degli sconfitti” (Bobbio).
Neppure Ferruccio Parri, che pagò “l’intransigente dedizione agli ideali di libertà” con la prigione e il confino, o Carlo e Nello Rosselli e Leone Ginzburg, che persero addirittura la vita per quegli stessi ideali, si sentirono mai vinti. Lo sarebbero stati al contrario se avessero disatteso i propri ideali: “ma questa è la vita, la fatalità della vita non solo nostra -della vita, starei per dire, vera, cioè della vita che vuole avere e si illude di poter avere efficacia plasmatrice e determinatrice. I più hanno per solo scopo quello di farsi un posticino nel mondo come l’hanno trovato nascendo. I pochi tendono a modificarlo. E simili ambizioni si pagano ed è bene, necessario, siano lautamente pagate. Forse a nulla approderai col tuo sforzo! Che conta? Avrai pur sempre modificato, migliorato, purificato te stesso, cioè il tuo vero mondo, che non è quello esterno e materiale, ma quello intimo dello spirito”(così scrive Carlo Rossellli alla madre Amalia).
Durante la Costituente si discusse a lungo se inserire nel progetto dell’ art. 50 il secondo comma: “Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”.
Nella seduta antimeridiana del 5 dicembre 1947, a seguito di un vivace dibattito, esso fu respinto. Forse avrebbe potuto evitare il proliferare di coscienze codarde e asservite, di schiene piegate sotto la frusta dei potenti.
Maria Cristina Marroni
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