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L’Ilva di Taranto, il diritto europeo e la “tirannia” dei diritti

di Enzo Di Salvatore
11 minuti

Con la sentenza n. 85/2013 la Corte costituzionale ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Gip e dal Tribunale di Taranto sul caso Ilva. Una pronuncia densa, complessa, che si concentra su ben 17 parametri di legittimità evocati dai giudici a quibus e che non può essere sintetizzata in poche righe.

Il mio intervento vuole avere ad oggetto unicamente due questioni.
1) La prima questione concerne la supposta (poi negata dalla Corte) violazione del diritto europeo da parte del decreto “Salva-Ilva”: in specie, del principio di precauzione e del principio “chi inquina paga”. La Corte dichiara inammissibile la questione perché il diritto europeo sarebbe stato dal giudice rimettente “genericamente evocato”, ossia senza che egli abbia dato conto di quali disposizioni sarebbero state lese. Anzi – è la Corte a sostenerlo –  senza che abbia tenuto in concreta considerazione la specifica produzione normativa del diritto europeo in materia siderurgica.
D’accordo. La questione della lesione del diritto europeo è genericamente evocata. Ma visto che è la stessa Corte a tirare in ballo il diritto europeo e, segnatamente, la direttiva 2010/75/UE (richiamata, peraltro, dallo stesso decreto “Salva-Ilva”), mi preme qui ricordare che quella direttiva contiene una disposizione che dice: “Laddove la violazione delle condizioni di autorizzazione presenti un pericolo immediato per la salute umana o minacci di provocare ripercussioni serie ed immediate sull’ambiente e sino a che la conformità non venga ripristinata … è sospeso l’esercizio dell’installazione …”.

Vero è che la direttiva non è stata ancora attuata nel nostro ordinamento (e, da questo punto di vista, l’Italia è inadempiente, in quanto avrebbe dovuto farlo entro il 7 gennaio 2013!), ma è pur vero che quella previsione risulterebbe direttamente applicabile (e a maggior ragione lo è in quanto il termine per la sua attuazione è ampiamente scaduto!); essa, in altri termini, andrebbe comunque rispettata, a prescindere dal comportamento dello Stato: diversamente, l’obiettivo della direttiva verrebbe vanificato. D’altra parte, non si può pensare che la prescrizione sulla sospensione delle attività in caso di pericolo per la salute funzioni solo qualora l’attività siderurgica non sia conforme alle condizioni dettate dell’AIA. Che quelle attività debbano essere sospese lo si ricava dalla ratio di quella stessa previsione: suo scopo è la tutela incondizionata della salute e dell’ambiente.
Del resto, la direttiva 2008/1/CE, che viene richiamata nella sentenza poco più avanti, stabilisce che gli Stati membri “prendono le disposizioni necessarie affinché le autorità competenti garantiscano che l’impianto sia gestito in modo che … non si verifichino fenomeni di inquinamento significativi”. Ergo: se l’inquinamento è significativo, e cioè se da esso ne derivi un pericolo immediato per la salute umana o una minaccia seria ed immediata sull’ambiente, la produzione va fermata.

2) La seconda questione riguarda il c.d. bilanciamento dei diritti che risultano coinvolti nel caso Ilva. La parte costituita (e cioè la società Ilva) ha sostenuto che “sarebbe erronea la pretesa che i diritti in questione siano insuscettibili di qualunque bilanciamento, così dando vita ad una gerarchia tra i valori della quale non vi sarebbe traccia in Costituzione” (punto 3.2.4. del Ritenuto in fatto) e che spetterebbe al Legislatore procedere ad un contemperamento dei diversi diritti in gioco (punto 14.2. del Ritenuto in fatto; in senso adesivo anche l’Avvocatura dello Stato: punto 13.2.4. del Ritenuto in fatto): da un lato, vi sarebbe, dunque, “il diritto alla prosecuzione dell’attività produttiva”, corollario della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) (libertà evocata sia dal giudice a quo (punto 1.4.4. del Ritenuto in fatto), sia dalla parte costituita (punto 14.2. del Ritenuto in fatto), dall’altro, il diritto alla salute e all’ambiente salubre (art. 32 Cost.).

La Corte, che aderisce all’idea che il bilanciamento sia stato effettuato attraverso la combinazione di due atti (il decreto-legge e l’AIA “riesaminata”), considera in detto bilanciamento il diritto al lavoro e il diritto alla salute, ma non la libertà di iniziativa economica privata! Al punto 9 del Considerato in diritto si legge infatti: “La ratio della disciplina censurata consiste nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso”.

Dunque: non salute versus iniziativa economica privata, ma salute versus lavoro!
A questa conclusione la Corte approda muovendo dal seguente postulato: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come «valori primari» (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”.

Personalmente non ho mai capito in che cosa consista questo bilanciamento tra diritti, posto che, a mio modo di vedere, il bilanciamento non è mai tale, ma è solo un modo per consegnare nelle mani del Legislatore la possibilità di esprimere un giudizio di soccombenza o di prevalenza dell’un diritto rispetto all’altro.
Il ragionamento che la Corte imbastisce sulla “tirannia” dei diritti a me pare fuori luogo ed evoca, in tutta evidenza, il noto dibattito filosofico sulla “tirannia” dei “valori”, incentrato sulla constatazione di come un “valore” – per l’adesione cieca che richiede – possieda in sé una ovvia attitudine a porsi come “tiranno” rispetto ad un altro di segno contrario. In questa prospettiva, mentre Nicolai Hartmann (1926) ha sostenuto che detta “tirannia” potesse essere evitata attraverso una sintesi materiale ed oggettiva di tutti i valori, Carl Schmitt (1960) ha sottolineato, invece, come il “pensare per valori” (una “logica immanente” a cui “nessuno può dunque sfuggire”) sia altro dalla sua “realizzazione”, in quanto questa si concreterebbe sempre in un atto di “imposizione” e di trasformazione della “nostra terra in un inferno”.

Ora, questo ragionamento non può essere esteso – come fa la Corte – al piano dei diritti, in quanto i diritti sono posti e vanno interpretati per quel che sono (ossia: per quel che devono essere). Questo vuol dire che un diritto può benissimo avere preminenza su un altro, senza che questa preminenza debba essere qualificata come “tirannica”: è l’ordinamento giuridico che assegna a ciascun diritto il suo posto nel sistema, che disegna per esso una certa struttura, che prevede per esso certuni limiti o taluni “vantaggi”. Il giudizio di prevalenza, che, per restare al linguaggio della Corte, renderebbe “tiranno” un diritto rispetto all’altro, è in molti casi già risolto dalla Carta costituzionale. Quando la Costituzione dice che l’iniziativa economica privata è libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana non ci sta forse dicendo che la sicurezza o la dignità umana hanno preminenza sul diritto alla prosecuzione dell’attività produttiva? La libertà di iniziativa economica privata è dalla Costituzione considerata in contrapposizione alla dignità umana; quindi non si può neppure affermare – come invece fa la Corte – che tutti i diritti costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.

La Corte dice che il bilanciamento tra contrapposti diritti in gioco (il “punto di equilibrio”) è effettuato ragionevolmente dal decreto-legge e dall’AIA, in quanto la prosecuzione dell’attività produttiva è autorizzata per un tempo non superiore a 36 mesi nel rispetto delle prescrizioni impartite con una autorizzazione integrata ambientale (AIA) rilasciata in sede di riesame, al fine di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche possibili. Ma qui – anche a voler per un momento prescindere dalle soluzioni offerte dalla Carta costituzionale – ci sarebbe da chiedersi: è davvero possibile pensare che il diritto alla salute sia suscettibile di bilanciamento? o è da ritenere, invece, che quel punto di equilibrio non si riassuma, di fatto, in una prevalenza di un diritto su un altro? Il diritto alla salute o è tutelato o non lo è! Come è possibile affermare che esista solo un “nucleo essenziale” del diritto alla salute che non può essere sacrificato? Resto a quello che scrive il giudice di Taranto nella sua ordinanza: “una lesione siffatta sarebbe già stata irrimediabilmente recata alla popolazione di Taranto e soprattutto ai bambini di quella Comunità”.



 

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Articolo ben scritto e ottimamente argomentato. Complimenti!
Perfetto, Prof! Grazie, come sempre per la sua chiarezza.
La magistratura tarantina, in testa Patrizia Todisco, arresta il presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido (PD), ed il suo assessore all’ambiente, Michele Conserva. La stessa magistratura si limita ad indagare il Sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno. Nulla per Niki Vendola nonostante, a loro dire, vi siano “Costanti contatti tra Ilva e Vendola”. Silenzio su Stampa e tv locali, così come sui sindacati ed oltremodo sui magistrati che per 50 anni hanno omesso ogni intervento atto ad impedire tutto ciò di cui oggi su Taranto si parla a livello mediatico e giudiziario. Florido e Conserva sono accusati di aver indotto, dal 2006 al 2011, dirigenti del settore ecologia e ambiente della Provincia di Taranto a rilasciare autorizzazioni per la discarica gestita dall'Ilva «in carenza dei requisiti tecnico-giuridici». Il Dr. Antonio Giangrande, scrittore e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, aborra l’uso spregiudicato delle manette. Tintinnio di manette che distrugge l’esistenza degli individui e dei loro incolpevoli familiari. E proprio perché la vita di Florido e Conserva ormai è distrutta, così come per tutti gli altri malcapitati, esprime il suo pensiero nel pieno diritto di critica pur nel rispetto della magistratura e senza alcun intento diffamatorio nei confronti dell’ufficio della procura e del giudice per le indagini preliminari. Lo manifesta in un contesto ambientale ed ideologico dove nessuno ha il coraggio di farlo, attraverso l’utilizzo di domande in apparenza retoriche, ma fondamentalmente legittime. «L’arresto del Presidente della Provincia di Taranto, il dr. Gianni Florido, sembrerebbe avere tutta l’aria di una ripicca. Se non lo è come si spiega lo strano tempismo adottato. Va da se che la fondatezza delle accuse vanno vagliate in dibattimento, ma era necessaria la carcerazione preventiva di un presunto innocente, con il paradosso che in carcere troverà Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Entrambe detenute con tutti i dubbi del caso? E poi perché ora una misura cautelare in carcere solo per Gianni Florido e non per Stefàno o per Vendola per il quale non vi è nemmeno un procedimento aperto? Dall'ordinanza emerge che le fiamme gialle, in un'informativa riportata da “Il Giornale”, ipotizzano un episodio di concussione anche per Nichi Vendola. E perchè le manette non sono scattate anche per Filippo Penati per la presunta mazzetta da 2 milioni di euro dal costruttore Pasini per l'ex area Falk di Sesto San Giovanni (di cui Penati è stato sindaco) e dall'imprenditore Pino di Caterina per l'affare Milano-Serravalle? Qualcuno mi chiederà di quale tempismo io parli in riferimento all’arresto di Florido effettuato il 15 maggio. Quale tempismo?!? Del fatto che il 14 maggio 2013 la battaglia giudiziaria sulle merci dell'Ilva è finita e da qui la cronologia è presto spiegata! 26 luglio 2012. I sigilli scattano nell'area produttiva. 26 novembre. Il sequestro delle merci prodotte. 24 dicembre 2012. Il decreto, numero 171 del 4 dicembre 2012, è stato convertito nella legge 231. Legge approvata a grande maggioranza dal Parlamento e che ha appunto confermato la doppia impostazione: via libera alla produzione e alla commercializzazione. Approvata la legge, l'Ilva ha subito cercato di riottenere la disponibilità delle merci ma qui è cominciato uno scontro durato cinque mesi e che ha visto tutte le istanze dell'azienda respinte dai giudici. Dai pm al gip, dal Tribunale del Riesame a quello dell'Appello, ogni qualvolta che l'Ilva ha chiesto di "liberare" semilavorati e prodotti ha collezionato solo no. Accanimento giudiziario tanto da indurre il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante a denunciare in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico. Il presidente del siderurgico ha chiesto ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda e di conseguenza minato i diritti dei lavoratori. Si arriva così al 9 aprile 2013, quando la Corte Costituzionale respinge, perché in parte infondate e in parte inammissibili, le eccezioni contro la legge 231 avanzate dai giudici e dice che la 231 è costituzionale. L'Ilva torna quindi alla carica e richiede il dissequestro delle merci: nulla da fare. E per più volte. Nessun dissequestro sin quando le motivazioni della Consulta sulla costituzionalità della legge non saranno state rese note, dicono i magistrati di Taranto. Le motivazioni arrivano il 9 maggio. 14 maggio 2013 il verdetto favorevole del gip. Il valore delle merci dissequestrate è compreso fra gli 800 milioni di euro e un miliardo di lire. 15 maggio 2013 arresto di Gianni Florido. Perché l’arresto di Florido, ove non sussistesse la condizione necessaria della reiterazione del reato e/o dell’inquinamento delle prove e/o del pericolo di fuga? Perché?!? Perché i magistrati devono avere sempre e comunque l’ultima parola e se ignominia deve essere, ignominia sia per il malcapitato di turno. I magistrati, tutti, fanno quadrato. A tirarla per le lunghe è inevitabile riportare quanto scritto sui giornali: Il presidente della Corte d' appello di Lecce Mario Buffa lancia l'allarme sulla possibilità che "grazie ad una legge di dubbia costituzionalità tutto resti come prima". Ed ancora “Sull’Ilva si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale (...) il sindacato ha mantenuto il silenzio nonostante la gravità di una situazione visibile a tutti”. Parole come pietre, le parole del procuratore generale Vignola. “Un attacco pesante di cui non si sentiva la necessità” è quanto dichiarato da Antonio Talò, leader della Uilm ionica, il sindacato più rappresentativo nel Siderurgico al centro della bufera giudiziaria ormai da mesi. “Abbiamo sempre denunciato quello che potevamo e dovevamo, certo i controlli sul benzo(a)pirene non spettavano a noi, che non siamo mai stati nè silenti nè conniventi. Se volessi fare polemica, chiederei a Vignola dove è stato, sino al 2012” è la chiosa del capo tarantino dei metalmeccanici della Uil. La chiosa vale anche per tutti i magistrati di Taranto? A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Stante, appunto, la situazione ambientale, non pare che sia necessario ed urgente che le difese si attivino a chiedere la rimessione dei processi anche sul caso Ilva per legittimo sospetto che non vi sia serenità di giudizio, specie con la contrapposizione di piazza tra le rispettive parti, anche politiche? Sempre che gli avvocati in causa abbiano il coraggio di Franco Coppi, che ai magistrati tarantini ha prima presentato l’istanza di rimessione e poi alla Cesarina Trunfio ed alla Fulvia Misserini (giudici togati del caso Scazzi) ha paventato l’ipotesi di una ricusazione: perché parafrasando Don Abbondio “se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”.» Dr Antonio Giangrande Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia