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Il Corrosivo: Sconfitte e minoranze

di Elso Simone Serpentini
7 minuti

La cronaca riporta spesso la notizia di qualche vittoria di qualche maggioranza su qualche minoranza e in molti casi la minoranza battuta è assai sparuta, a volte costituita da poche unità. Le voci che dissentono e si oppongono molto spesso sono assai isolate e così fuori dal coro da essere zittite e ridicolizzate. Finiscono per avere torto e per essere sommerse da maggioranze “bulgare” che si impongono, fanno prevalere il proprio parere con la forza del numero e sbaragliano il campo. Che ad avere ragione fossero non le maggioranze, che si sbagliavano, ma proprio le minoranze, ci pensa poi la storia a dimostrarlo. A differenza della cronaca, che scrive nell’immediatezza dei fatti, essa giudica ad una maggiore distanza temporale e in un più vasto quadro d’insieme, nel quale si può chiaramente vedere quali conseguenze abbiano avuto le scelte imposte dalle maggioranze. 

Si potrebbero portare, proprio sul piano storico, molti esempi di questa specie di “rivalsa” delle minoranze, alle quali, purtroppo tardivamente, si deve riconoscere il merito di avere a suo tempo ragione, ma non di essersela vista riconoscere. A Teramo, per restare minimalisti, abbiamo uno di questo esempi nella vicenda dell’abbattimento del vecchio Teatro Comunale, inaugurato nel 1868 e demolito nel 1959 per fare posto alla Standa e ad un Cinema Teatro che proprio in questi giorni sta facendo parlare di sé per la sua clamorosa inagibilità. All’epoca, negli anni ’50, si arrivò all’abbattimento, voluto da una stragrande maggioranza di cittadini teramani, con pochissime voci di dissenso e le delibere furono approvate in consiglio comunale con il voto favorevole anche dei consiglieri di opposizione, che avrebbero potuto e dovuto opporsi, ma non si opposero. Tranne due, che votarono contro: i consiglieri missini Martegiani e Lettieri. Una sparuta minoranza vedeva giusto e una stragrande maggioranza no.

Oggi sappiamo che la prima aveva ragione ed ebbe torto, la seconda aveva torto ed ebbe ragione. Ma l’unica, autentica voce di dissenso e contraria all’abbattimento (a parte il caso del consigliere Martegiani, ingegnere e competente) fu quella di un personaggio che la Teramo di allora considerava quasi come una “macchietta”, cioè assai poco, stimava ancora meno e non poche volte ridicolizzava per la sua passione politica di monarchico e di fedele custode delle tradizioni di casa Savoia. Si chiamava Tobia Mattucci: stempiato, grassoccio, naso rubizzo, gote arrossate, sempre agitato e perfino petulante nella sua “verve” polemica contro l’Italia repubblicana.

Nella questione dell’abbattimento del Teatro Comunale fu ancora più lungimirante del consigliere Martegiani, che pure era un tecnico, e spiegò ancora meglio perché il vecchio teatro dell’Ottocento non andava abbattuto. Non essendo un consigliere comunale (perché lo avevano votato troppo pochi elettori per essere eletto), affidò le sue ragioni di dissenso ai giornali e venerdì 2 ottobre 1959 Il Tempo pubblicava una sua lettera in cui egli spiegava perché era contrario  all’abbattimento, ritenuto da lui inopportuno. Aggiungeva che il suo parere era condiviso “da larghi strati della popolazione del capoluogo e della provincia” e in questo si sbagliava, perché a condividerlo erano a Teramo in così pochi da poter essere contati sulle dita di una mano.

Il parere del cav. Tobia Mattucci, principale esponente del partito monarchico teramano, era articolato su cinque punti, dei quali è particolarmente interessante il quinto (i primi quattro erano considerazioni tecniche e procedurali). Il sindaco Carino Gambacorta, diceva Mattucci,  aveva dichiarato che l’abbattimento in sé e per sé del vecchio teatro, un immobile cadente, non poteva essere considerata “una diminuzione e tanto meno una distruzione del patrimonio comunale”, in quanto il fabbricato era non più idoneo all’uso per il quale era destinato, “per le sue condizioni statiche seriamente compromesse e per lo stato di non riparabile rovina di tutte le strutture”.

A sostegno di questa sua convinzione, il sindaco avrebbe dovuto disporre di una valutazione tecnica dalla quale fosse risultato che il teatro era un fabbricato cadente, che invece non c’era stata. Ammesso che ci fosse stata, come mai il sindaco, aveva commesso l’imprudenza di concedere l’uso del teatro, ritenuto seriamente compromesso e cadente, solo pochi giorni, per una conferenza sindacale dei dipendenti da Enti locali? 

“Non si è affatto convinti” scriveva il cav. Mattucci “della rispondenza delle convinzioni del sig. Sindaco, mentre si è convinti che il teatro può e deve essere restaurato internamente ed esternamente, provvedendo al mantenimento del patrimonio comunale. Che lo ebbe donato da ‘autentici cittadini teramani’, pensosi della dignità e del prestigio della nostra città. Tutti i teatri dei capoluoghi di provincia d’Abruzzo, sono stati convenientemente restaurati, e non solo quelli, ma anche quelli di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata. Si ridia quindi il Teatro a Teramo dignitosamente restaurato per le rappresentazioni liriche, prosa, concerti, conferenze, ‘senza uso di cinema’. Il restauro del teatro potrebbe costituire anche un giusto diritto dei cittadini e sono in maggioranza che non se ne vogliono privare e né vale la pretesa che dal 1936 il locale fu destinato a spettacoli misti.” 

Il cav. Mattucci osservava, dimostrando anche in questo la sua isolata lungimiranza, che, anche nel caso deprecabile che si fosse voluto abbattere il vecchio teatro ad ogni costo, si sarebbe dovuto bandire un concorso per il miglior progetto della nuova costruzione. Si sarebbe dovuto anche bandire un’asta fra quelle imprese edili che, per capacità tecnica e solidità finanziaria, avessero offerto le migliori garanzie. Invece di affidarsi ad un privato per l’anticipo della somma necessaria per la nuova costruzione in cambio della gestione trentennale del nuovo teatro, perché non ci si era rivolti ad un istituto bancario per la concessione di un mutuo a lunga scadenza: 20 o 30 anni? In questo modo “il Comune avrebbe bene impiegato la somma spesa, ricavandone direttamente gli utili dai fitti derivanti dai magazzini affittati e dalla concessione in gestione del cinema-teatro, che sarebbero serviti ad estinguere il debito, e in prosieguo, verrebbe a costituire una delle poche attività del Comune”. 

In una breve nota a commento, il giornale scriveva che ospitare il parere del cav. Mattucci non significava condividerlo, tanto più che non lo si poteva non ritenere “intempestivo”. La pratica si trovava già in una fase avanzata ed era troppo tardi per “pretendere di rifare tutto da capo”. Non si rifece tutto da capo e il teatro fu abbattuto, con un primo colpo di piccone del sindaco Gambacorta e poi con tutti gli altri. Mattucci che - oggi lo sappiamo perfettamente - aveva ragione, ma ebbe torto. Tutti gli altri avevano torto, ma ebbero ragione. In democrazia sono i numeri a giudicare e stabilire chi ha torto e chi ha ragione. Poi la storia emette un secondo giudizio, d’appello e molto spesso le sentenze vengono ribaltate.

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