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Il corrosivo: Ci risiamo con le lamentele per il Carnevale…

di Elso Simone Serpentini
6 minuti

Ci risiamo. Teramo riprende a lamentarsi per il mancato festeggiamento del Carnevale. I teramani hanno sempre fatto, al riguardo, come quei tali che periodicamente si impegnano ad esprimere nostalgia per qualcosa che in realtà non hanno mai avuto. E una antica e gloriosa tradizione dei divertimenti carnascialeschi non l’hanno mai avuta. Così hanno spesso lamentato che non esistessero più i bei Carnevali “di una volta”, senza tener conto che quella tale “una volta” non c’è mai stata. In qualche rara stagione si sono viste sfilate di carri per il corso, arrangiati alla meglio, e gruppi certamente originali come quello degli “ignorantelli”. Ma niente di più, o poco di più, come quando nel 1892 fu accolto in corteo e in pompa magna l’ingresso in città di “Sua Maestà Carnevale, Duca di Magnanella, Principe di Castagneto, Barone di Colle Izzone, Marchese di Forcella, Conte di Nepezzano e di Frondarola, Gran Feudatario dei Paesi Bassi”.

In quell’occasione “Sua Maestà il Carnevale” entrò nella Piazza Vittorio Emanuele (oggi Piazza Martiri della Libertà) in carne ed ossa, su un carro trionfale, come un imperatore romano, preceduto da cavalieri che cavalcavano asini bardati all’ultima moda, e seguito da la Diplomazia, in rigoroso abito nero. Dietro di lui venivano una quindicina di carrozze con sopra alcune maschere che distribuivano il programma dei festeggiamenti e il decreto emanato da Sua Maestà, con il quale si ordinava al popolo teramano, in nome del consiglio privato composto da Bacco, Venere e Apollo, con l’assenso di Giove Pluvio, a scacciare la “micrania”.

Destino volle che proprio quell’anno, in cui s’era finalmente tornati, dopo anni di mortorio,  a festeggiare alla grande il Carnevale, e proprio nel clou dei festeggiamenti, in Piazza Vittorio Emanuele, a causa di una serie di spintoni ritenuti volontari, due guardie daziarie estrassero dal fodero le loro daghe e si misero a dare colpi all’impazzata, tutt’intorno a sé. Infilzarono a morte un giovane muratore, il notissimo “Paccatù”, e un sarto intabarrato nel suo mantello e con la pipa in bocca, la cui unica colpa fu quella di trovarsi, per caso, nel posto sbagliato in un momento sbagliato. Il duplice omicidio rese “tragico” un Carnevale che finalmente avrebbe potuto essere assai allegro. Ma prima e dopo di quell’anno…. che mortorio! Lo stesso di cui ci si lamenta oggi. Quante espressioni di rammarico e di rassegnazione per la mancanza di divertimenti!

“E’ tutto magro il Carnevale di quest’anno”. Questa fu la battuta più ricorrente in tutti gli ambienti teramani, per molti anni. “Sono gli ultimi giorni di un moribondo”, si diceva, quando, a fine Ottocento, erano già molti a sostenere che Teramo e i teramani fossero già quasi morti. Si accusava il vescovo di essere amante più della Quaresima che del Carnevale, ma la stessa accusa veniva rivolta a tutti i teramani. Quando veniva annullata qualche festa da ballo, per ironizzare si diceva: “Il pudore delle famiglie teramane è salvo!”. Ma si insisteva anche a dire: “A Teramo si muore di noia!”.

A denunciare che a Teramo si morisse di noia e che non esistessero divertimenti adeguati si sono impegnati in molti nel corso degli anni, più o meno a ragione, anche quando in città c’erano uno splendido Teatro Comunale, dove si proiettavano anche dei film, affiancato da altre quattro sale cinematografiche, pratiche sportive che avevano anche realtà di spettacolo e altre forme di svago. Figuriamoci oggi, che davvero non abbiamo quasi più nulla… “Vogliamo far rivivere le belle feste di una volta…” si torna a dire di tanto in tanto. Ma quale volta? Quando ci sono state queste belle feste di cui si favoleggia? Perché vecchie signore rimpiangono una giovinezza e una bellezza che non hanno mai avuto? Perché i teramani continuano a rimpiangere divertimenti di cui non hanno mai goduto? Perché continuano a menare vanti di cui non si sono mai gonfiati il petto? Perché si gloriano di un lignaggio che non gli è mai appartenuto? Sono sempre stati neghittosi, indifferenti, apatici, pensosi solo di sé, delle proprie cose e dei propri amici.

Eppure un senso c’è. Una ragione per il ritorno delle lamentale esiste. A lamentarsi sono sempre state le minoranze, attive, operose, desiderosi di far cessare un sonno secolare con squilli di trombe che destassero i tanti dormienti. Così quanto più sono state attive ed operose le minoranze, tanto più sono state le lamentazioni e oggi i pochi che si illudono di opporsi ai molti sono sempre pochi ma agguerriti. C’è un elemento in più: davvero abbiamo toccato il fondo e siamo andati anche oltre. Davvero il nulla a Teramo è diventato così tanto nulla che di più non si può. Così “la micrania” è diventata davvero regina e il Carnevale, sconfitto, batte in ritirata, preparando la strada ad una lunga Quaresima, che come si diceva già nel 1892: “curva sotto il peso del grosso fardello che ci reca pieno di prediche, viaggia perso Teramo”.

In realtà sospetto che la Quaresima abbia ormai messo piede a Teramo e vi sia rimasta da lungo tempo in pianta stabile, insieme con un’altra megera di cui pure ci si lamentava già nel 1892, “la musoneria”, accusata di bersagliare con voluttà speciale l’unico ritrovo che avesse Teramo. Il “Corriere Abruzzese” quell’anno scriveva: “Fu pietà verso una sepolta viva, la vita teramana di Carnevale, quella che ci vinse”. Oggi le gazzette scrivono cose analoghe. Ed è già tanto che non abbiano dovuto titolare, come si fu costretti nel 1892, “Un tragico Carnevale”.

 

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Il Teatro Comunale di Teramo fu indubbiamente uno dei protagonisti dei festeggiamenti, pur discontinui, del canevale teramano. In occasione del carnevale, nel XIX come nel XX secolo, il Teatro Comunale si animava con feste, balli in maschera e ogni sorta di evento collaterale che il clima allegro del momento poteva suggerire. La sera del 10 febbraio 1877 nel Teatro venne rappresentata l'opera "Il parafulmine" di Melchiorre De Filippis Delfico. Fu un successo clamoroso. La sala era stracolma in ogni ordine di posti e il maestro venne richiamato ben 22 volte all’onore del proscenio. Gli artisti fecero la loro parte come meglio non si poteva. Una lapide, murata nel vestibolo del Teatro, così ricordava quella eccezionale serata: «Perché sappiano i posteri che nel carnevale del 1877 fu rappresentato in questo Teatro "Il parafulmine", melodramma del Cav. Melchiorre Delfico, promotrice la Deputazione dei pubblici spettacoli congratulandosi con l’illustre concittadino che accresce onore e fama alla Patria, ha fatto scolpire questa memoria. Teramo, 13 febbraio 1877». Altro carnevale memorabile fu quello del 1887, sentito davvero come festa di popolo, che si svolse in un clima di allegria e di generale spensieratezza. I folli veglioni del carnevale, come vennero definiti, coinvolsero tutta la Città e tutta la Città in quella circostanza danzò, cantò recitò, bevve, mangiò e folleggiò. Durante il grande veglione di carnevale del 1887, in un Teatro Comunale infiorato e illuminato all'Excelsior, i cronisti dell’epoca scrivevano che furono viste decine di signore scendere in sala a danzare fra la gente del popolo, senza alcuna distinzione di classe. Gentildonne e gentiluomini, straordinariamente affastellati con borghesi e operai, ballarono insieme sui motivi suonati dalle due bande che si alternavano sul palcoscenico. Si mangiava e si beveva sia nei palchi, sia nei buffets, con le tavolate poste a ferro di cavallo, e su in alto nei palchetti e nel loggione fino all’alba, tra canti e brindisi. Gli anni cinquanta del novecento videro, tuttavia, l'avvio di una lenta ma progressiva riduzione dell’importanza sociale che, sino ad allora, aveva avuto il carnevale teramano, nonostante la discontinuità degli eventi posti in essere dalle pubbliche autorità. E i clamori che tanto avevano risuonato, in Città e nel Teatro, pian piano si spensero.