Salta al contenuto principale

Il corrosivo: «dehors de nous, pour vous»

di Elso Simone Serpentini
6 minuti

Su questa piazza e lungo questo corso Teramo ha scritto la propria storia.
In un lungo percorso, durato anni attraverso diversi regimi, ha isolato il Duomo abbattendo le vecchie case che erano state costruite addosso e attorno alla Cattedrale, ha abbattuto i portici bassi per ricostruirli uguali a quelli alti che stavano di fronte, e sotto gli uni e gli altri ha visto sorgere, restare aperti, chiudere e riaprire, in ricorrenti resurrezioni, caffè e bar allestiti secondo le mode vigenti.
Caffè Tripoli, il Caffè di Pettucce, il Grand’Italia, Ideal Bar, il Caffè Fumo sono stati alcuni tra i diversi nomi che hanno portato pubblici esercizi di differenti tendenze che hanno avuto fasti e nefasti, nell’ondeggiare del rapporto tra domanda e offerta in un incerto mercato. In questo scenario all’ombra della Torre del Duomo, le cui quinte sono il palazzo del vescovo, la vista del Corso e l’occhieggiare dei portici i teramani sono vissuti, a volte da protagonisti a volte da spettatori, partecipando a comizi, sfilate, processioni, cortei e funerali.
Hanno assistito ad alcuni delitti avvenuti proprio sulla piazza quando era intitolata ad un re, l’omicidio compiuto il giorno di carnevale da due guardie daziarie, l’omicidio del fascista Guido Pallotti ad opera di due comunisti vicino ai portici bassi, l’omicidio del povero Pompa ad opera di un macellaio che voleva uccidere un altro macellaio per rancore e gelosia di mestiere.

Sotto i portici del Gran d’Italia i calciofili hanno salutato le vittorie del calcio teramano, annunciate via telefono alla cassiera, facendone rimbombare le volte e decine e decine di avventori hanno consumato sedie e tavolini, sorseggiando tè e caffè e mangiando pasticcini, magari sfogliando il giornale o semplicemente spettegolando sul prossimo e parlando di donne, quasi sempre quelle degli altri. Poi, un giorno, venne il tempo dei “dehors”. E chi non conosceva il significato del termine o se lo fece spiegare o lo cercò sui vocabolari, dove veniva spiegato che si trattava di “spazi esterni di un pubblico esercizio, forniti di tavolini, caratteristici di bar e ristoranti”. Se ne videro di tutti i tipi e sorti con le più diverse giustificazioni, tollerate e/o autorizzate con le più lambiccate argomentazioni legali. Un trionfo per la mentalità di moltissimi amministratori teramani, tutti nati tra le fasce di un partito egemone, la democrazia cristiana, che spiegava come l’esercizio del pubblico potere non dovesse consistere in niente altro che nel favorire la felicità e il benessere individuale dei cittadini amministrati, aiutandoli al meglio a conseguire le proprie aspirazioni, per quanto possibile, anche aggirando leggi e regolamenti o emanandone di specifici, appositamente studiati e adattati ad ogni evenienza.

Fu un fiorire di “dehors” a Teramo, quale non s’era mai visto prima, di tutti i tipi e di tutte le fogge, aperti, chiusi, semichiusi, stagionali, fissi, di tutti gli stili, antichi, moderni, post moderni, contemporanei. Un “dehors” non era più suppellettile, orpello, aggiuntivo, ma essenziale, determinante, soprattutto per la sopravvivenza di un locale.
Il mercato, bellezza. Il busines, mister. Parigi val bene un “dehors”. Altro che la gara dei balconi fioriti... vuoi mettere i “dehors” fioriti? Se ne videro di piccoli e grandi, a fianco di una strada, in mezzo alla strada, ai lati di una piazza, in mezzo alla piazza, simboli di modernità, di attività economica florida, di una vitalità mercantile inarrestabile. Uno, in particolare, anche se dalla forma che faceva pensare più ad un vespasiano che allo spazio esterno di un caffè, divenne un simbolo, amato da molti, detestato da molti altri, considerato un monumento, non si sa a che cosa.                                                                                                                                                                                                                                       Ora è chiuso ed è solo il monumento di se stesso.
Non si sa di che cosa d’altro. Ma è anche una metafora.
La metafora di una ciclicità di alti e bassi che quello storico locale, del quale era struttura aggiuntiva, ha oggi ritrovato il punto suo più basso, senza che riesca a ritrovare un senso, come accade a tutto ciò che tenta di trovare un senso anche se un senso non ce l’ha.
Che fine farà? Se lo chiedono in molti. E’ un destino che verrà scritto ricorrendo alla consultazione delle pandette e, come ogni cosa che deve decidere il tribunale saranno non le gazzette, che sono giornaliere, ma i libri di storici, cioè gli annali, a scrivere che fine avrà fatto.
Per adesso, come accadeva prima dell’ultima resurrezione del Grande d’Italia, i curiosi accosteranno lo sguardo alle chiuse vetrine per vedere se, per caso, siano già arrivati i topi, nella lotta eterna così bene illustrata da John Steinbeck.

Commenta

CAPTCHA