A voi, cittadini del Pretuzio, voglio rivolgermi con questa mia epistola, per indurvi a riflettere su quanto continui ad essere per voi dannosa questa vostra tendenza alla più completa indifferenza riguardo le sorti della vostra città.
E’ stato scritto che l’indifferenza è semplicemente paura, apparenza e puro egoismo, che è una nemica, che si diventa indifferenti perchè si ha paura di soffrire e si vuole trovare un modo per dimenticare ciò che ci opprime.
Montale la indica quale “unico bene”, ma solo perché, dopo la morte della moglie, si era ritrovato a vivere in solitudine o con persone che non svolgevano un ruolo di rilevante importanza nella sua vita.
L’abate La Mennais nel suo “Saggio sull’indifferenza in materia di religione” si limitava ad un particolare aspetto di un atteggiamento configurabile più che altro come distanza dai temi religiosi e spirituali. Ma Gramsci, che l’analizzava sul piano civile e politico, oltre che sociale, diceva di odiare gli indifferenti, perché la considerava abulia, parassitismo, vigliaccheria, non vita, il peso morto della storia. Maria Luisa Spaziani la qualificava come “inferno senza fiamme”, Kahlil Gibran come “già meta della morte”.
Potrei citarvi molti altri aforismi sull’indifferenza e molti alti detti celebri, mostrandovi come essa sia stata giustamente considerata assai prossima all’apatia, all’ignavia – che tanto veniva condannata da Padre Dante – e perfino alla napoletana “pecundria”, consistente in una specie di condizione catalettica, di malinconia e/o di depressione, che induce ad una completa inazione e ad una totale mancanza di reazione anche di fronte ad offese e soprusi. Potrei... ma sono sicuro che finirei con il tediarvi ancor di più di quanto vi tedino gli inviti a mutare i vostri atteggiamenti o anche solo a riflettere sulla vostra condizione.
Voi Pretuziani apparite oggi come indifferenti a tutto, non solo alle sorti della vostra città, alle nequizie che vi si compiono e alle rapine pubbliche e private che vi si fanno, ma anche alla vostra sorte individuale, che mettete nelle mani di coloro che hanno mostrato di essere essi stessi indifferenti alla sorte vostra e della città e attenti solo ai propri interessi privati, in termini di possesso di potere, cariche e pecunia.
Bene si adatta alla vostra condizione di indifferenti a tutto e a tutti quella storia che viene attribuita ad un anonimo saggio riguardo a quattro persone, chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno. C’era un lavoro importante da fare e Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto. Ciascuno avrebbe potuto farlo, ma Nessuno lo fece. Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Ciascuno avrebbe potuto fare.
Per parte mia, vi assomiglio ai sibariti, di cui diceva male tutta l’antichità, riferendo la storia di un cittadino di Sibari che, sdraiato all’ombra di una quercia, raccontava ad un suo concittadino, sdraiato accanto a lui, quanto si fosse stancato assai al solo guardare uno che lavorava per aggiustare una strada. E l’altro lo invitò a smetterla con quel racconto, perché lui si stancava assai al solo sentire raccontare che era stato visto qualcuno lavorare.
Come i sibariti
I teramani sono com’erano i sibariti,
ricchi di povertà, poveri di ricchezza,
inerti, noncuranti, indifferenti, sfiniti
ancora prima di fare, nella mollezza
adagiati, a vaneggiare. E intenti
solo a non fare, a provare fastidio
per coloro che fanno, sono attenti,
criticano, propongono. E il dissidio
riservano a chi si oppone e persiste
a volere un cambiamento qual che sia
e dopo tanti fallimenti ancora insiste
a rinunciare a una rinuncia così triste
a percorrere sempre la stessa via
e a rifiutarsi di vedere cose viste.
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